lunedì 26 aprile 2010

Scuola di preghiera 2005 II

II - “Signore, insegnaci a pregare! ” Il Padre Nostro



Abbiamo iniziato l’altra volta a parlare della preghiera e della necessità di imparare a pregare. Infatti, dicevamo, non è facile pregare, e non è qualcosa che nasce spontaneo, anche se è necessario per l’uomo, diremmo per la sua stessa vita, entrare in rapporto con Dio e coltivare l’amicizia con lui.

Oggi andiamo avanti nel nostro discorso per chiederci da chi imparare a pregare. Dicevamo come Gesù si presenti nel Vangelo come maestro, cioè “Rabbì”, in lingua ebraica. E’ l’appellativo con cui era chiamato pubblicamente, ma anche nel gruppo dei suoi intimi, tanto che anche gli uomini che facevano parte della sua cerchia più stretta ci sono noti come “i discepoli”, cioè quelli che imparavano da lui[1]. Gesù si proclama addirittura come “l’unico maestro” al quale gli uomini possono attribuire a pieno titolo questo appellativo: “E non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23,10). Anche per la preghiera Gesù è maestro, e lo è in due modi diversi: col suo esempio di uomo di preghiera e con i suoi insegnamenti espliciti a riguardo.

Oggi vorremmo approfondire questi due temi e lo faremo, naturalmente, osservando in particolari i brani del Nuovo Testamento che ce ne parlano.



Gesù uomo di preghiera



Gesù si presenta agli uomini del suo tempo come un pio ebreo che osserva la Legge mosaica e la mette in pratica, anche nelle sue prescrizioni riguardanti la preghiera. La novità del suo modo di vivere la fede infatti non sta nell’abolizione della religiosità antica, come a volte una visione superficiale ha fatto credere, ma nel viverla in modo profondo e spirituale: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.” (Mt 5,17). E’ quello che è chiesto anche a noi, non di inventare niente di nuovo, ma di vivere con profondità e in modo spirituale, cioè pieno e umano, l’insegnamento del Vangelo, che resta sempre valido.

Il primo tratto che emerge dal modo di vivere di Gesù è che la sua preghiera occupa uno spazio ben preciso, cioè un tempo e un luogo in cui la sua attenzione è dedicata completamente al dialogo col Padre. Cioè, per dirla in altro modo, Gesù non pregava mentre era intento a fare altre cose, anche cose che non prendessero tutta la sua attenzione, come, ad esempio, il viaggiare, o il riposare, o il lavorare manualmente, tutte azioni che non furono assenti nella vita di Gesù, come in quella di tutti gli altri uomini e donne del suo tempo. Nel Vangelo leggiamo infatti:

“Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare.” (Mc 6,46);

“Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.” (Mt 14,23);

“Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare.” (Lc 5,16);

“In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione”. (Lc 6,12);

“Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare”. (Lc 9,28);

“Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare…” (Lc 9,18);

“Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: "Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare"”. (Mt 26,36);

“Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava.” (Mc 1,35);

“Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava”. (Lc 22,41)

Dai brani citati emerge come il Signore si riservava degli spazi di incontro col Padre ben precisi in cui il luogo non era indifferente, ma era sempre caratterizzato non solo dalla quiete e dall’isolamento, ma anche dal fatto che vi si doveva recare di proposito, non di passaggio o casualmente. Questo sta a sottolineare, ancora una volta, il fatto che dedicare tempo alla preghiera è sempre una scelta, a cominciare dal “quando” e dal “dove”, oltre che dal “come”. Tante volte la nostra preghiera è poco profonda anche per l’assenza di questa decisione, per la casualità dei luoghi e dei momenti, magari inadatti alla preghiera. Non si può pretendere infatti di riuscire a leggere la Parola di Dio in un luogo rumoroso o confusionario, oppure pressati dagli impegni, in uno spazio di tempo ristretto e di fretta. Non basta un pensiero in qualche momento, fra una faccenda e l’altra: anche se questo è pur sempre un modo di avere nel cuore il Signore nell’arco della nostra giornata, non basta.

C’è bisogno di trovare anche noi il nostro “monte” o il “luogo solitario” e, a volte, di passare addirittura dall’altra parte del lago per pregare[2], cioè di sforzarci di trovare le condizioni più adatte, anche se questo ci richiede qualche fatica in più.

Anche la tradizione della Chiesa ci dimostra la necessità, avvertita fin dai primissimi tempi, di stabilire degli spazi all’interno della giornata dedicati esclusivamente alla preghiera e quindi sgombri da altre occupazioni. La preghiera delle Ore, frutto dell’antica tradizione della preghiera monastica, ne è il risultato più evidente all’interno della giornata, come anche il precetto della liturgia domenicale lo è per quanto riguarda l’arco della settimana.

Questa attenzione rispecchia l’uso che Gesù faceva del suo tempo, così diverso da quello nostro abituale. Oggi viviamo come una simultaneità di tante situazioni. Sia perché veniamo a conoscenza in tempo reale di quello che accade anche molto lontano di noi, ma anche perché siamo portati a vivere contemporaneamente cose diverse, o ad essere coinvolti in più situazioni. E’ frequente infatti che mentre si fa una cosa già si pensi a quella che faremo subito dopo, o che parliamo con due persone contemporaneamente, magari ad una di persona e ad un’altra al cellulare. Le conversazioni si incrociano, e se una cade, ce n’è già un’altra subito pronta a rimpiazzarla, ecc…

Gesù invece vive il suo tempo a pieno, cioè concentrando la sua attenzione su una persona o una situazione per volta, dando luogo sempre ad un incontro vero, cioè significativo e personale. Lo possiamo vedere, ad esempio, nel caso della donna guarita dopo aver toccato di nascosto un lembo del mantello di Gesù: “Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò. Gesù disse: "Chi mi ha toccato?". Mentre tutti negavano, Pietro disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia". Ma Gesù disse: "Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me". Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l’aveva toccato, e come era stata subito guarita. Egli le disse: ‘Figlia, la tua fede ti ha salvata, và in pace!’.” (Lc 8,43-48). E’ una scena ai nostri occhi assurda. Nel mezzo di un quadro di grande confusione e in presenza di tanta gente Gesù si ferma perché si è reso conto di quel tocco leggero della donna. Basta poco perché l’attenzione di Gesù sia attirata, è così anche per la nostra preghiera. Per noi quel soffermarsi di Gesù è tempo perso. In fondo il risultato positivo c’era stato, cioè la guarigione di quella donna malata, la ricerca di chi lo avesse toccato in quella gran confusione sembra una domanda ridicola, che può essere male interpretata dalla gente attorno. E’ quello che fanno notare i discepoli a Gesù. Che bisogno c’era di fermarsi, non era meglio invece dedicare l’attenzione così preziosa del Signore a qualcun’altro che non era stato ancora beneficato? E’ questo quello che noi pensiamo davanti a quell’episodio. In realtà Gesù non accetta la logica frettolosa, ma vuole che l’incontro efficace con la sua potenza di salvezza non passi inosservato o sia casuale e di sfuggita, ma vuole dedicargli il tempo che richiede, che merita, e lo fa, rischiando anche il ridicolo. Lo stesso avviene per la preghiera di Gesù: sottrae tempo ai tanti suoi impegni perché è un tempo altrettanto prezioso e a cui dedicare tutta la propria attenzione.

Pregare infatti non è mai tempo perso, anche se gli impegni urgenti sono molti e, di norma, finiscono per prendere il sopravvento.



La preghiera incessante



Quanto detto può sembrare contraddire quello che Gesù afferma altrove circa la necessità di pregare sempre e ovunque: “Vegliate e pregate in ogni momento” (Lc 21,36) e che San Paolo riprende, affermando: “Pregate incessantemente” (Ef 6,18; Ts1 5,17). Questa richiesta di Gesù è stata presa in considerazione da molti cristiani nel passato che si sono chiesti cosa volesse dire l’invito del Signore a pregare incessantemente. Nell’Oriente cristiano, ad esempio, nacquero delle vere e proprie tecniche di preghiera che proponevano la recita del nome di Gesù al ritmo del respiro per l’arco di tutta la giornata, anche mentre ci si dedicava alle occupazioni ordinarie della vita quotidiana o, addirittura, durante il riposo.

Senza nulla togliere al valore di tale forma di preghiera, bisogna anche tener conto che è difficile applicarla in un contesto spirituale diverso da quello in cui è nata, e inoltre l’esempio di Gesù ci mostra un’attitudine diversa. Forse l’invito ad essere costanti nella preghiera si può intendere come l’esortazione a mantenere saldo il legame fra preghiera e vita, facendo sì che la seconda sia duttile alla prima, se ne faccia come il prolungamento e la memoria, appunto, vivente. Ciò significa, ad esempio, impostare tutta la propria vita sull’atteggiamento dell’uomo di preghiera, cioè di chi ha ben chiara la propria non autosufficienza e il bisogno che lo lega fondamentalmente a Dio. Sono numerosi a questo proposito i brani evangelici che esprimono l’invito di Gesù a costruirsi prima e dopo il tempo dedicato alla preghiera come “uomini e donne di preghiera”, acquistando una qualità umana diversa.

Una umanità misericordiosa: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati".” (Mc 11,25);

umile: “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.” (Mt 6,5);

perseverante: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1);

sincera e interiore: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole.” (Mt 6,7);

fiduciosa: “Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato.” (Mc 11,24);

intima con Dio: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.” (Mt 6,6);

benevolente e senza spirito di vendetta: “ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44); “benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano.” (Lc 6,28);

vigilante: “perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione” (Lc 22,46); “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole".” (Mt 26,41);

gioiosa: “Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza.” (Lc 22,45);

altruista: “Diceva loro: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe.” (Lc 10,2).

E’ evidente come una umanità così non si improvvisa: la si costruisce nel tempo con un impegno costante che coinvolge ogni momento e aspetto della nostra vita. E’ come essere sempre in preghiera, cioè nello sforzo di conformarsi allo spirito di Gesù, vero modello dell’uomo di preghiera.



Il Padre Nostro



Oltre però alla testimonianza che Gesù lasciò di se stesso come uomo di preghiera e agli insegnamenti che abbiamo rapidamente scorso, Gesù ci ha lasciato un modello di preghiera che da sempre è stato considerato insuperabile e fonte di ogni preghiera cristiana: il Padre Nostro. Tertulliano verso il 200 chiama il PN il “compendio di tutto il Vangelo”. Vogliamo provare allora a scorrerne le parole cercando di penetrare più in profondità il significato.

Il testo del Padre Nostro ci è tramandato, con delle piccole differenze, dal Vangelo di Matteo e da quello di Luca. Alcuni esegeti però hanno trovato dei riferimenti ai contenuti del PN anche in Marco, Giovanni, nella Lettera agli Ebrei e in alcune lettere paoline[3]. Questo per sottolineare che il PN è stato fin da subito colto come un tesoro prezioso della preghiera cristiana da cui non si può prescindere, fondamentale e normativo per la fede. Si può parlare allora di cinque o più PN, e questo non ci deve scandalizzare o turbare, perché è segno che la preghiera di Gesù non è una formula ma invocazione vissuta e aperta alla fede di ciascuno. Dovremmo aspirare a che ciascuno dica il “suo” PN, dando ad ogni invocazione il significato e l’intensità che viene dalla vita personale e dalla storia del tempo.

In Matteo il PN occupa la posizione centrale del discorso della montagna (Mt 5-7). Questa lunga sezione è divisa in cinque parti:

introduzione e prologo (5,3-16; 17-20)

parte I: contro la giustizia degli scribi (5,21-48)

parte II: contro la giustizia dei farisei (6,1-18)

parte III: la superiore giustizia del Regno (6,19-7,11)

conclusione ed epilogo (7,12;13-27)

Il PN è incluso nella sezione centrale della terza parte, che si occupa di tre diverse pratiche:l’elemosina, la preghiera (di cui il PN risulta l’esemplare) e il digiuno. Questa collocazione ne sottolinea la centralità, ma allo stesso tempo il legame con tutti gli aspetti della vita del credente.

Il PN ha sua struttura semplice costituita da una invocazione e sette richieste.

Fin dal suo principio chiarisce immediatamente che abbiamo a che fare con una preghiera della comunità: “Padre nostro”. Le quattro ultime richieste lo sottolineano ancora una volta: “nostro pane”, “nostri peccati”, “non farci entrare”, “liberaci”.

Tertulliano scrive a questo proposito: “Chi professa Dio come Padre, professa anche il Figlio. Ma chi professa il Padre e il Figlio, annuncia anche la Madre, cioè la Chiesa. Senza di essa non vi è Figlio e non vi è Padre. Nella parola Padre adoriamo Lui assieme a tutti i suoi [figli]”

Le sette richieste si dividono in due gruppi: il primo, composto dalle prime tre richieste, concernono Dio stesso, mentre solo a partire dalla quarta l’attenzione è rivolta alla comunità e alle sue necessità. In questo il PN segue lo schema classico della preghiera ebraica che prevedeva all’inizio le lodi di Dio, poi le suppliche e infine il ringraziamento.

“Rabbi Sinai spiegava: Sempre si deve prima lodare il Santo, benedetto Egli sia, e solo dopo pregare, cioè chiedere ciò di cui si ha bisogno.”[4] Un altro famoso Rabbino, Rav. Chanina, scriveva a questo proposito: “Le prime [delle diciotto benedizioni] fanno pensare ad un servo che proclama la lode del suo padrone, quelle di mezzo a un servo che chiede favori al suo padrone, le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende commiato”[5] Gesù non si allontana dunque dal modo di pregare degli ebrei, come anche S. Agostino rileva commentando il PN.[6] L’unica differenza dallo schema classico è la mancanza del ringraziamento finale. Il PN infatti termina con un grido finale “Liberaci dal male!” come se la preghiera fosse ancora incompleta, mancante del ringraziamento che nella Liturgia è costituito dall’embolismo, la preghiera che segue e completa il PN. A ciascuno sta completare il PN col proprio ringraziamento nella vita vissuta.

Nel Vangelo di Luca il PN è introdotto dalla frase: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘Quando pregate dite...” (Lc 11,1-ss.). Colpisce che un momento così solenne non venga minimamente localizzato: non si dice né dove avviene l’interrogazione, né chi la fa, come a dirci che ciascuno, ovunque si trovi, deve apprendere a pregare dal Maestro stesso. La domanda del discepolo avviene in un contesto di preghiera: Gesù torna dai suoi dopo essere stato in disparte a pregare e questo suscita l’interrogativo. E’ sempre l’incontro col Signore a suscitare il bisogno di imparare a pregare.



Padre nostro che sei nei cieli



L’inizio del PN ci aiuta a trovare il nostro posto davanti a Dio. Innanzitutto ci dice che siamo suoi figli, non sudditi né servi, con un rapporto duraturo e che ha un suo statuto di per sé, al di là della nostra volontà. Figli non si è per scelta, né per casualità, e implica il dovere di tenerne conto, ma anche il diritto a un rapporto preferenziale e privilegiato.

Il fatto che Dio è padre ha come conseguenza che siamo fratelli e sorelle di tutta l’umanità, infatti è padre nostro, e non mio. Anche qui non abbiamo scelta, si tratta solo di decidere se tenerne conto o meno.

Ma appena affermata questa prossimità estrema di Dio agli uomini, cosa impensabile per gli ebrei o i pagani, quasi paradossalmente se ne afferma l’alterità assoluta: “che sei nei cieli”. Cioè il Dio di cui stiamo parlando, è Padre, ma questo non significa che è a nostra completa disposizione. E’ un rapporto di cui non possiamo fare quello che vogliamo. Nell’espressione: “che sei nei cieli” avvertiamo tutta la forza attrattiva che Dio vuole esercitare su di noi, per sollevarci fino a sé, e lo fa non incutendo timore o obbligandoci con la forza, ma persuadendoci con l’amore, cioè quello Spirito Santo che ci permette di chiamarlo Padre, anzi Papà, come afferma Paolo: “Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’.” (Rm 8,14-15). Quando Gesù prega alza gli occhi al cielo: “Così parlò Gesù, quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: ‘Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio glorifichi te’.” (Gv 17,1). Il cielo per Gesù è il Padre, alzando gli occhi al cielo Gesù guarda gli uomini con gli occhi del Padre, buoni e misericordiosi, cioè pieni della sua gloria che è l’amore. Lo stesso il PN chiede a noi, cioè di rivolgerci al Padre alzando gli occhi al cielo, per imparare a vedere con il suo sguardo.



Sia santificato il tuo nome



E’ la prima richiesta caratterizzata, come le due seguenti, dal tu/tuo: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”, mentre poi seguiranno quelle caratterizzate dal noi/nostro: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non ci indurre in tentazione, liberaci dal male.”

Le richieste col tu sono strettamente apparentate con la preghiera ebraica del Qaddish[7], mentre quelle col noi costituiscono la vera novità del PN.

“Sia santificato il tuo nome”: a differenza dell’uso attuale, nel Nuovo Testamento, come nel giudaismo, il “Nome” ha un significato profondo, pieno. Il nome indica il carattere e le qualità essenziali di chi lo porta; si veda ad esempio Is 43,1: “Io ti chiamo per nome”; Lc 10,20: “I vostri nomi sono scritti nei cieli”; Gv 10,3 “Il buon pastore chiama le sue pecore per nome”; Es 3,13: “Qual è il suo nome? … Dio disse a Mosé: Io sono colui che sono”.

Santificare il suo nome allora significa riconoscere che Dio è il Santo. Ma che bisogno c’è di riconoscere la Santità di colui che è di per sé stesso la Santità? In Ez 36,20-23 è detto che Israele ha profanato il Nome di Dio fra i popoli e per questo Egli santificherà di nuovo il suo Nome. In Lev 22,32 sta scritto: “Non profanerete il mio santo nome, affinché io sia santificato in mezzo ai figli di Israele”. Partendo da questi testi il teologo protestante Karl Barth inquadra la richiesta che il Nome di Dio sia santificato nel contesto dell’egoismo radicato nella natura umana ed espresso nell’indifferenza verso gli altri uomini, che costituisce una profanazione del nome di Dio, rendendo necessaria la sua “risantificazione”.[8]



Venga il tuo regno



La seconda richiesta del PN riguarda il regno di Dio, o regno dei cieli, di cui si parla spesso tanto nell’Antico che nel Nuovo Testamento. La realizzazione del regno è la trasformazione della realtà in quello che Dio vuole da sempre e cioè che tutti siano felici, e non si può essere felici se non si è capaci di voler bene e di farsi voler bene. L’infelicità più nera infatti è proprio nell’incapacità ad accettare che qualcuno ti voglia bene e, di conseguenza, nel non riuscire a voler veramente bene a nessuno.[9]

Si potrebbe obiettare: se Dio è onnipotente e ha un progetto di bene per il mondo, perché non lo applica una volta per tutte e lascia invece il male libero di seminare morte e distruzione a non finire ? Il problema è che nessuno, nemmeno Dio, può imporre a nessuno la felicità, né l’amore: entrambe sono cose che o le si desidera e le si costruisce, o altrimenti mai niente e nessuno potrà imporle contro la propria volontà. “Venga il tuo regno” allora non è un pio augurio, non significa: “speriamo che tutto vada per il meglio o che prima o poi le cose si sistemino una buona volta” ma vuol dire prendersi l’impegno a far proprio il desiderio di Dio che io per primo, e con me tutti gli uomini, accettiamo di essere amati e di voler bene per poter essere finalmente felici. Non è scontato, dobbiamo scegliere e volere che la sovranità che Dio esercita in cielo divenga realtà ovunque, anche sulla terra.

Ma ecco che subito si presenta una seconda obiezione: su cosa posso fondare la speranza che il regno di Dio possa veramente realizzarsi, non è solo una illusione utopistica ? Il realismo e il pessimismo sono i due nemici più temibili della realizzazione del regno, più di tutte le altre forme che il male può assumere sulla faccia della terra. Dobbiamo essere particolarmente attenti a non cadere nel tranello del realismo: si presenta apparentemente innocuo, in realtà mina la realizzazione del regno di Dio perché corrode la fiducia che questo possa mai avvenire. Noi possiamo avere fiducia nella realizzazione del Regno perché la resurrezione di Gesù ha inaugurato un tempo nuovo. Niente è più come prima: la vittoria definitiva sulla morte ha aperto la possibilità di credere che il regno un giorno sarà pienamente realizzato, perché ne scorgiamo già l’alba. Per Gesù il regno di Dio è al tempo stesso già presente e deve ancora venire, ha già fatto irruzione, ma deve ancora realizzarsi compiutamente. Sta a noi decidere come collocarci in questo contesto: fra quelli che vogliono affrettarne il compimento o chi lo rallenta rafforzando i motivi di sfiducia e pessimismo realista? Fare proprie le parole del PN ci aiuta a prendere il posto giusto, quello di Gesù.



Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra



Questa richiesta si trova solo in Matteo e non in Luca. Tutti i commentatori del PN hanno messo in parallelo questa terza richiesta con le parole di Gesù nell’orto degli ulivi poco prima della passione: “non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (in Mc 14,36 e passi paralleli di Lc e Gv) oppure “sia fatta la tua volontà” (Mt 26,42). Nella sua preghiera poco prima della sua morte, Gesù esprime il desiderio che gli sia evitata la morte: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39). E’ un desiderio molto umano. Ma come può ammettere Gesù, che è Dio, una richiesta al Padre che sa che è in contrapposizione al suo disegno? E’ la dimostrazione che la preghiera per Gesù non è mai fuori luogo o inutile, purché esprima la propria richiesta e allo stesso tempo il desiderio di aderire comunque sia alla volontà di Dio. Non è però un segno di rassegnazione, ma di fiducia che la volontà di Dio è sempre la migliore. In nome di questa sottomissione si può anche chiedere che Dio “cambi idea”, che cioè inserisca nei suoi piani il mio desiderio, proprio perché, dice sempre Gesù nel Getsemani, “Tutto è possibile a te” (Mc 14,36).

Esiste una cedevolezza di Dio alla preghiera insistente e fatta con fiducia, come avviene quando Abramo intercede con insistenza per Sodoma (Gen 18). Dio sembra dire che è pronto ad uniformare la sua volontà a quella dell’uomo se questi dimostra, con la sua sottomissione e fiducia, di essere disposto a fare altrettanto. Nell’orto degli ulivi Gesù pronuncia la sua supplica mettendo in conto che forse non sarà esaudito, come avverrà poi in realtà, eppure prega e chiede ai discepoli di fare altrettanto. Pregare allora significa innanzitutto chiedere che il proprio volere sia in sintonia con quello di Dio, tanto se esso corrisponde col proprio, quanto se invece si debba accettarne un altro.



Dacci oggi il nostro pane quotidiano



La quarta richiesta, è la prima con il noi e la prima che scende su un piano prettamente materiale. In realtà questa è solo apparentemente una contraddizione con quanto la precede. Le richieste precedenti infatti non sono di tipo spiritualista, ma anzi, come abbiano anche già notato, hanno un forte riscontro concreto nella vita pratica personale e comunitaria. Sono come la preparazione necessaria perché chi prega sia messo nella sua giusta collocazione: davanti ad un Dio di cui fidarsi come un Padre, ma allo stesso tempo infinitamente oltre il contesto immediato in cui ciascuno di noi è inserito e come invischiato; liberato dall’egoismo che profana la santità della creazione di Dio, di per sé giusta e buona; proteso verso la realizzazione definitiva del bene che il Padre ha in mente e ci propone, perché ne diveniamo partecipi e collaboratori col nostro amore. Siamo giunti quindi a chiedere concretamente quello per cui quanto fin qui chiesto si realizzi concretamente: pane, cioè vita, per tutti, senza differenze. Questa domanda ci vuole come far tornare con i piedi ben piantati in terra, è un richiamo al fatto che pregare non è un modo per astrarsi dal contesto in cui siamo immersi, la famiglia dei fratelli e delle sorelle, della cui vita siamo tutti corresponsabili. Per questo ora usiamo il noi: è questa infatti la prospettiva che da senso alla preghiera, l’amore per gli altri, la ricerca del bene per tutti e non solo per sé.

Questa richiesta va situata nel contesto complessivo della testimonianza dei Vangeli circa l’atteggiamento di Gesù nei confronti del cibo materiale. Egli non lo disprezza mai. La citazione di Dt 8,3: “Non di solo pane vive l’uomo…” non indica infatti rifiuto della dimensione materiale del mangiare, ma rifiuto della tentazione satanica di trasformare le pietre in pane (Mt 4,4; Lc 4,4). Ad esempio Gesù si distingue da Giovanni battista: lui ha digiunato mentre Gesù no: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare.” (Mc 2,19).



Rimetti i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori



Questa quinta richiesta a prima vista sembra quasi un patto con Dio: se io perdono, tu devi fare altrettanto con me. Si potrebbe discutere a lungo, e molti commentatori lo hanno fatto[10], se la richiesta vuol dire che il perdono del credente deve venire prima di quello di Dio o è frutto del perdono di Dio. La discussione è complessa, ma non porta a conclusioni significative. Quello che questa richiesta vuole sottolineare è che, dopo la preoccupazione per la vita di tutti, la fraternità universale che ci lega a ogni uomo e donna si fonda sull’amore che ha una delle sue massime espressioni nel perdono.

Altrove nel Vangelo Gesù è anche più radicale su questo tema: per lui credere in Dio vuol dire credere tout-court nel suo perdono e su questo si fonda la nostra capacità di voler bene ad altri e di voler bene a Dio nella preghiera. Dice infatti il Vangelo di Marco: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni le vostre colpe” (Mc 11,25). E Matteo: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.” (Mt 5,23-24). Non essere riconciliati col fratello rende impossibile la preghiera, oltre che infruttuosa. Con questa richiesta del PN vogliamo quindi inserirci in questo flusso di amore che Dio ci riversa col suo perdono e che noi dobbiamo accogliere e ricambiare coi fratelli.



Non ci indurre in tentazione



Questa sesta richiesta è quella che forse solleva più problemi. Che vuol dire pregare Dio perché non ci conduca nella tentazione? Può egli, l’unico buono (cfr. Mc 10,18) mettere di proposito gli uomini sulla strada del male? Fin dall’antichità i commentatori cristiani hanno provato ad addolcire l’espressione interpretandola con il significato “non lasciarci soccombere al male”[11]. In realtà il testo originale in greco significa esattamente “condurre alla tentazione”. Anche in questo caso c’è uno stretto parallelo fra la richiesta del PN e le parole di Gesù nell’orto degli ulivi: “Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».” (Mt 26,40-41). Ma cosa vuol dire cadere in tentazione? Varie spiegazioni sono state date, e forse quella che è più accettabile è quella che viene dal Vangelo stesso, quando ci parla di Gesù tentato nel deserto dopo il digiuno di quaranta giorni. Il vangelo di Marco afferma: “Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano.” (Mc 1,12-13) e analogamente Matteo scrive: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo.” (Mt 4,1). Cioè non è Dio che tenta, ma solo lascia al diavolo la possibilità di tentare Gesù, di metterlo alla prova. E’ questa anche la tentazione di cui parla il PN: la richiesta è che il Padre non lasci al diavolo la libertà di metterci alla prova, di tentarci per farci divenire complici suoi. Cioè: non ci condurre nella situazione in cui a causa della nostra debolezza rischiamo di cedere alle tentazioni.

Ciascuno di noi sa quali sono le situazioni in cui rischia di cedere al male, nelle quali il diavolo ha gioco facile a farci suoi complici. Chiedendo aiuto al Padre noi innanzitutto ammettiamo la nostra debolezza e riaffermiamo con forza la necessità che abbiamo del suo sostegno per fuggire dalla complicità col male. E’ una richiesta forse un po’ ingenua, vista la presenza diffusa del male nella vita: come faremo ad evitare ogni contatto con esso? Eppure Gesù stesso ci esorta a chiedere quello che serve, anche a rischio di apparire infantili e immaturi: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.” (Mt 18, 3-4). E’ questa la fiducia che Gesù ci chiede e che lui stesso dimostra nell’orto degli ulivi chiedendo al Padre quello che sapeva inevitabile: che gli fosse risparmiata la sofferenza e la morte. E’ la richiesta del bambino. Allo stesso modo noi possiamo, anzi dobbiamo chiedere al Padre che ci eviti ogni contatto col male che ci vuole attirare a sé, sapendo che come bambini ci possiamo rivolgere con fiducia a lui, se restiamo certi che poi il suo agire, qualunque esso sia, sarà il meglio per noi.



Liberaci dal male



Questa è l’ultima richiesta del PN, la settima. Il numero sette per l’ebraismo stava ad indicare la perfezione: i giorni della creazione, le luci del candelabro del tempio, ecc… Anche il PN racchiude nelle sue sette richieste la pienezza della preghiera, la perfezione dell’invocazione del credente al suo Dio-Padre. Questa conclusione chiede in modo assoluto la liberazione dal male. Si è partiti con la gloria di Dio nel cielo e si conclude con la presentazione dell’abisso del male. Tutta la vita e la preghiera del credente è compresa fra questi due estremi opposti.

Questa invocazione che è come un grido finale, come dicevamo prima, ci richiama l’invocazione di Gesù nell’orto degli ulivi: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!” (Mt 26,39). Siamo nel pieno della passione del Signore Gesù. Manca nel PN il mattino della resurrezione, quando le donne andando al sepolcro ricevettero dal’angelo l’annuncio della resurrezione del Signore.

Le parole conclusive del PN ci conducono al Sabato Santo, e lì ci lasciano, sulla soglia, perché noi ci avviamo con fiducia verso la porta spalancata della domenica di resurrezione in cui assieme al celebrante completeremo la preghiera del PN con le parole dell’embolismo, proclamazione del Cristo risorto e re eterno della nostra vita:



“Liberaci, o Signore, da tutti i mali,

concedi la pace ai nostri giorni;

e con l'aiuto della tua misericordia,

vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento,

nell'attesa che si compia la beata speranza,

e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo.

Tuo é il regno, tua la potenza

e la gloria nei secoli.”





[1] Cfr. Mc 14,45: “Allora gli si accostò dicendo: "Rabbì" e lo baciò.”
Mt 23,8: “ Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.”
Gv 4,31: ”Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia".”
Gv 6,25: “Trovatolo di là dal mare, gli dissero: "Rabbì, quando sei venuto qua?".”
Gv 9,2: “I suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?".”
Gv 1,49: “Gli replicò Natanaèle: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d`Israele!".”
Gv 11,8: “I discepoli gli dissero: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?".”
Gv 3,2: “Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: "Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui".”
Gv 1,38: “Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì (che significa maestro), dove abiti?".”
Mt 26,25: “Giuda, il traditore, disse: "Rabbì, sono forse io?". Gli rispose: "Tu l`hai detto".”

Mc 4,38: “Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t`importa che moriamo?".”
Mc 5,35: “Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: "Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?".”
Mc 9,5: “Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: "Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!".”
Mc 9,17: “Gli rispose uno della folla: "Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto.”
Mc 10,35: “E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: "Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo".”
Mc 9,38: “Giovanni gli disse: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri".”
Mc 10,20: “Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza".”

ecc…

[2] Probabilmente Gesù infatti si voleva recare a pregare sull’altra riva del lago, in un luogo più solitario, quando chiese di esservi accompagnato: “Un giorno salì su una barca con i suoi discepoli e disse: "Passiamo all`altra riva del lago".” (Lc 8,22).

[3] Cfr. O. Clément, B. Standaert, Pregare il Padre Nostro, Magnano, 1988, pp. 16-40.

[4] Dal Talmud babilonese.

[5] B.Berachot 34a.

[6] “Ogniqualvolta chiediamo qualcosa, dobbiamo prima cercare di guadagnare la benevolenza di colui al quale ci rivolgiamo. Poi gli si presenta l’oggetto della propria richiesta. Ora, la benevolenza di qualcuno la si ottiene lodandolo, e questa lode si pone normalmente all’inizio della supplica. Perciò il Signore ci prescrive di dire semplicemente ‘Padre nostro che sei nei cieli’” Agostino, Sermo 2,4; PL XXXIV, col. 1275.

[7] Il testo del Qaddish infatti recita: “Glorificato e santificato sia il suo grande Nome nel mondo che Egli ha creato secondo la sua volontà…, faccia regnare il suo regno…rapidamente e fra poco.”

[8] K. Barth, Dogmatica, vol. IV,4, p. 218.

[9] Il Card. Newman scriveva a proposito una pagina molto bella: “...un uomo che non è santo, quand’anche gli fosse concesso di entrare in paradiso, lì non sarebbe felice; e non sarebbe perciò misericordia concedergli di entrare. Vediamo quindi che la santità, o la separazione interiore dal mondo, è necessaria per essere ammessi in paradiso, perché il paradiso non è tale, cioè non è un luogo di felicità se non per i santi. Vi sono alcu­ne malattie che influiscono sul gusto, al punto che i sapori dolci diventano disgustosi al palato; altre che indeboliscono la vista, sl che il bel volto della natura sembra malaticcio. Allo stesso modo vi è una malat­tia morale che altera la vista e il gusto interiori; e nes­suno che ne sia affetto è in condizioni di godere quello che la Scrittura chiama «gioia piena alla presen­za di Dio, dolcezza senza fine alla sua destra» (Sal 15,11). Oserò anzi dire ancor di più - è terribile, ma è giusto dirlo -: se volessimo immaginare una puni­zione per un' anima reproba ed empia, non potrem­mo escogitarne una maggiore della chiamata al cielo. Il cielo sarebbe inferno per una persona irreligiosa.”J.H. Newman, Come guardare il mondo con gli occhi di Dio, Milano 1996, pp 88-89.

[10] Cfr O. Cullmann, La preghiera nel Nuovo Testamento. Una risposta alle domande odierne, Torino 1995, pp. 98-ss.

[11] Così hanno interpretato Marcione, Tertulliano ed Agostino.

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