martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - IV


III tappa: Quaresima tempo per radunarsi in un popolo

Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo
.

La dimensione normale della nostra vita quotidiana è la dispersione. Tutti lo sappiamo e lo diciamo in diverse occasioni, spesso lamentando che la vita ci porta ad essere molto indaffarati e senza tempo. Ma siamo sicuri che è una realtà subita, e non piuttosto una dimensione che ciascuno di noi ha interiorizzato e fatto propria?
Dicevamo il mercoledì delle ceneri come la mentalità individualista del nostro tempo marchia come valore tutto ciò che riguarda il singolo e lo isola nella sua unicità e autoreferenzialità. Al contrario, tutto ciò che è collettivo, comune e “al plurale” è visto con sospetto se non stigmatizzato come negativo e pericoloso per l’equilibrio individuale.
È chiaro da chi provenga questa mentalità: dall’uomo di mezza età, autosufficiente e benestante che può fare a meno di tutti. È questo il modello unico da imitare che la cultura materialista ci propone. Chi sta male, chi non ce a fa da solo, chi ha bisogno di qualcun’altro per vivere è automaticamente escluso, anzi farebbe bene a togliersi di mezzo per lasciare lo spazio che occupa a chi ne ha diritto.
E non solo in senso figurato. È di questi giorni la notizia che lo scrittore inglese Martin Amis ha affermato che al compimento del 70° anno di età sarebbe opportuno che ciascuno, spontaneamente, si tolga la vita. Questo aprirebbe ai giovani maggiori possibilità di trovare il loro posto nella società che, “appesantita” dai vecchi, non potrebbe prestare loro l’attenzione e le risorse necessarie a garantire loro un futuro. L’accesso all’eutanasia non sarebbe pertanto più limitata ai casi di malattia grave o sofferenze insopportabili, ma basta che si diventi un po’ meno autosufficienti e si abbia bisogno di un po’ più aiuto e sostegno da parte della società (in termini di pensione, assistenza sanitaria e sociale, ecc…) che si è addirittura incolpati del malessere dei giovani.
Pensiamo anche ad un altro analogo segnale preoccupante, la vittoria in questa ultima settimana nelle elezioni comunali olandesi del partito xenofobo PVV, il cui leader Geert Wilders proclama idee apertamente razziste contro la coesistenza con persone di altra religione, in particolare islamici. Anche in questo caso assistiamo ad un fenomeno in parte nuovo. Infatti, a differenza del passato, Wilders non è un tradizionale conservatore di destra che vuole restaurare un modello di società del passato o cose simili. Infatti egli si è dichiarato a favore dei diritti individuali, quali le libertà per gli omosessuali, o un modello economico liberista, ecc… In questo senso è molto moderno e progressista. Infatti è proprio la ricerca esasperata della libertà di espressione dell’individuo in quanto tale che gli fa odiare ogni forma di convivenza che chieda uno sforzo di mediazione o integrazione con elementi culturalmente e religiosamente diversi da sé: l’individuo deve potersi esprimere così come è senza dover sottostare a nessun limite o compromesso che la convivenza con l’altro impone necessariamente.
In senso analogo, anche se in termini diversi, un certo progressismo alla spagnola, “zapaterista”, esaspera la libertà individuale, tanto da estendere anche agli animali il diritto all’autodeterminazione e a vedere riconosciuti i loro sentimenti, e, coerentemente, offre alle minorenni la possibilità di decidere di abortire senza bisogno di doversi confrontare con adulti. È il delirio dell’individualismo che genera un uomo disperato nella sua solitudine senza limite.
E’ chiaro come questa mentalità mieta vittime fra la parte della società più svantaggiata: se si auspica la morte prematura dei settantenni, che sono dei cosiddetti “nostri”, figuriamoci cosa si può sperare degli stranieri, dei senza casa, dei disabili, ecc…
C’è nella mentalità individualista un virus, ancora più pericoloso perché nascosto sotto un manto di ragionevolezza e normalità. Ci viene inoculato nelle vene in modo quasi impercettibile, ma poi si moltiplica uccidendo l’organismo stesso che lo ospita. E’ la morte del cuore, l’elemento vitale dell’uomo, di cui parlavamo le volte scorse.
Il nome stesso di Chiesa, che significa assemblea, riunione dei convocati, contraddice il concetto di individuo isolato.
Per questo la lotta contro questa mentalità individualistica si combatte principalmente con le armi della tenerezza e dell’amore, le uniche che possono restituirci un cuore vivo e umano. Esse ci rendono simili a Dio, mentre il virus dell’individualismo, piano piano, ci rende simili al re della divisione, quel diabolos, che in greco significa letteralmente “principio di divisione”. Il diavolo si combatte sconfiggendo la divisione, che consiste non solo nell’essere “contro” gli altri, ma anche solo l’essere “lontano” dagli altri, in disparte, isolati, vittoria del diavolo.
L’individualismo si esprime principalmente nella convinzione, abbastanza semplice e facilmente accettata da tutti, perché sembra molto evidente e ragionevole, che ciascuno ha il proprio destino individuale da realizzare che procede su un proprio binario. I cristiani hanno invece l’idea che Dio prepara un destino per il suo popolo e che ciascuno non può realizzare il proprio disgiuntamente da quello degli altri.
Sempre mercoledì parlavamo di un tessuto. Per usare quest’immagine direi che il cristiano non è un filo isolato, teso verso chissà quale destino, ma trova il suo senso in un tessuto ordito e intrecciato da Dio. Nell’intrico complesso e tessuto ad arte anche i fili di nessun pregio cooperano a creare un tessuto dalla trama solida e dal disegno bello e prezioso. Nella Chiesa non è il singolo, per quanto geniale o dotato che la rende forte, ma la comunione di un popolo.
L’orgoglio ci spinge a cercare di isolare il proprio filo umano, ma questo, separato dall’ordito, tende a ingarbugliarsi, a raggomitolarsi su se stesso e a diventare un’inutile matassa intricata di nodi. Un filo da solo non si regge dritto, non serve a niente, è soggetto a sfilacciature e a spezzarsi. Nei tappeti, se li giriamo sul retro, vediamo bene come la trama sia complessa. Ogni filo però è indispensabile. Anche il filo più ricco e prezioso, di lana calda o di seta brillante, senza il sostegno della trama più grezza, che ci sembra così umile e disprezzabile, non regge, e il tappeto si lacera. Allo stesso tempo, senza i fili colorati la trama diventa rigida, ruvida e perde la bellezza dei disegni che impreziosiscono il tappeto.
Senza l’opera di tessitura della tenerezza la fede rimane un fatto privato e individuale, privo della bellezza e dell’utilità che ha un tessuto. Per questo nel popolo che è la Chiesa dei discepoli di Gesù c’è posto per tutti: vecchi, fanciulli, lattanti, e non c’è un vincolo familiare che giustifichi un porsi in disparte dal popolo (“lo sposo e la sposa escano” e non stiano fra di loro, dice Gioele).
Il tessuto sta insieme perché i fili si intrecciano: non basta essere messi l’uno accanto all’altro o l’uno sopra l’altro. Chi si difende dall’altro e crede di dover realizzare il proprio destino individuale separato dagli altri in realtà si condanna a vivere una vita ingarbugliata e piena di nodi: una matassa da cui non si ricava nulla di buono.
La parola di Dio a questo ci invita e questo fa: cerca di intrecciarci docili alle vite degli altri, e più esse sono e più il tessuto è robusto, più l’intreccio è complicato e più il disegno è prezioso.
Quando noi abbiamo di fronte un fratello e una sorella dovremmo pensare: ecco, ho trovato finalmente proprio il filo che mancava! Ci voleva una tinta vivace a ravvivare la trama, anche se è un po’ chiassosa. Ci sono fili che sono fragili e da soli ci si sfaldano fra le dita, ma se intrecciati su una trama più solida le danno morbidezza. Ci sono fili anonimi; fili consumati dalla vita quasi fino a ridursi a poche fibre; fili giovani e robusti, ma magari tutti ingarbugliati; fili ancora chiusi nel cellophan che si preservano da tutte le esperienze per paura di sciuparsi, e restano inutili nella plastica; fili usati e riusati, un po’ sfibrati; fili di ferro rigidi e fili spinati che ci si ferisce a prenderli in mano. Con tutti Dio sa cosa farci, come ammorbidirli, come sciogliere i nodi, come attutire le punte, come accostare le tonalità.
Non siamo noi a scegliere i fili con cui siamo intrecciati, sono le mani sapienti di Dio, e questo fa inorridire gli ideologi dell’individualismo: “come faccio ad esprimere me stesso, come trovo la mia strada, come mi realizzo a pieno …?” Ma noi sappiamo che la sapienza di Dio fa incontrare gli uomini e le donne giuste, ma non giuste per me, bensì per il tessuto, il disegno, la trama. E’ questo però che valorizza e dà senso alla mia vita.
C’è qualcuno che pensa: io ho realizzato il mio tessuto, ho scelto i fili giusti e mi trovo bene nel mio nido. Ma se Dio non tesse, quella che realizziamo è solo un intreccio informe, non un tessuto. Anche perché Dio non sa che farsene di treccine o matassine di due o tre fili, Dio ha bisogno di avvolgere il mondo col suo tessuto: di vestire i popoli che sono al gelo, di decorare gli angoli squallidi, di ammorbidire le durezze, di riparare dalle piogge, di imbottire le asperità del terreno e stendere un manto sui crepacci, perché nessuno vi cada dentro.
Dio si aggira per il mondo e riconosce in ogni essere umano un potenziale filo indispensabile per il suo tessuto. E’ questa la dignità più grande che un uomo può avere: essere un filo utile per la tela di Dio.
Quante ceste inutili di gomitoli, impolverati o incellophanati, quanti fili sperduti incontriamo nella nostra vita.
I poveri ci indicano una strada: chi ha bisogno infatti tende la mano, chiede, cerca disperatamente e con tutti i mezzi di intrecciare la sua vita con quella di chi gli capita di fronte. Ne ha un bisogno tale che non può permettersi il lusso di scartare gli antipatici o gli scostanti. Dio usa anche la loro insistenza per convincerci a non restarcene in disparte, ma a lasciarci incastrare in una trama più larga di noi. Dobbiamo imparare dai poveri a tendere le mani anche noi e a cercare di intrecciare la nostra vita con quella degli altri, perché ne abbiamo bisogno.
Possiamo dire che la liturgia è il telaio di Dio: egli è presente e cerca in tutti i modi di convincerci a lasciarci intrecciare facendoci sperimentare la bellezza della prossimità con il fratello e con la sorella, facendoci uscire almeno una volta a settimana dall’isolamento spirituale, ma anche fisico. Ci trasfigura, sperando che guardando il fratello accanto a noi proviamo simpatia per lui, lo vediamo bello, desiderabile. Nella liturgia c’è l’ordine della fraternità che da un posto a ciascuno, ognuno indispensabile ma anche servo inutile.
La Quaresima allora è un tempo opportuno perché lasciando entrare nel nostro cuore la tenerezza di Dio e la simpatia per l’altro impariamo a vincere il virus dell’individualismo per divenire il popolo scelto da Dio e radunato dallo shofar della sua Parola.


Preghiera di Quaresima

Marco 10,46-52
Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". Chiamarono il cieco, dicendogli: "Coraggio! Àlzati, ti chiama!". Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: "Che cosa vuoi che io faccia per te?". E il cieco gli rispose: "Rabbunì, che io veda di nuovo!". E Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Commento
Il passaggio di Gesù raduna sempre molta folla. Nella gran confusione ci sono persone diverse, come diversi sono i motivi per i quali si raduna. Lo vediamo anche in questo episodio. Tanti sono i curiosi, spesso vediamo anche gente che lo segue per poterlo criticare, con quel gusto così caratteristico di sentirsi superiori, c’è chi è sinceramente interessato, ma poi resta deluso; chi segue da lontano, ecc... Anche noi abbiamo motivi diversi per rispondere all’invito del Signore ad unirci alla folla che lo segue: l’abitudine, la curiosità, un bisogno, un senso del dovere, ecc…
Ci sono sempre anche molti poveracci che seguono Gesù perché intuiscono che da lui potranno ricevere una risposta al proprio bisogno. Così è Bartimeo, cieco mendicante. Per lui chiedere è normale, ma questo infastidisce la folla. Che bisogno c’è di chiedere in modo insistente e sguaiato. Va bene seguire, essere presente, ma perché chiedere? E’ il fastidio di chi è sazio e non sopporta il chiedere, anche quando è un altro a farlo.
Il grido di quel povero però non può essere sovrastato dalla folla. È il grido del popolo schiavo in Egitto che Dio udì nonostante la lontananza: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa” (Es 3,7-8). È il grido insistente e importuno della vedova che ottiene giustizia dal giudice iniquo, costretto dalla sua petulanza a compiere quello che avrebbe dovuto fare di per sé (Lc 18,1-8).
Gesù si lascia forzare dal grido e cede all’insistenza, poiché legge in quel gesto un segno di fede, come quando dice: “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8-9)
La Quaresima sia per noi un tempo in cui imparare a rivolgerci a Dio con insistenza e grida forti, senza il fastidio di dover dipendere da altri.
Impariamo a tendere la mano del cuore verso Dio e verso i fratelli: abbiamo bisogno di loro per dare un senso alla nostra vita.

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