martedì 27 aprile 2010

XXX domenica del Tempo Ordinario (C) 2004

XXX domenica del Tempo Ordinario (C)
24 ottobre 2004

Sir 35, 12-14.16-18
Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone.
Non è parziale con nessuno contro il povero,
anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso.
Non trascura la supplica dell'orfano
né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Le lacrime della vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza,
la sua preghiera giungerà fino alle nubi.
La preghiera dell'umile penetra le nubi,
finché non sia arrivata, non si contenta;
non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto,
rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l'equità.


2Tm 4,6-8.16-18
Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Lc 18, 9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
Commento
Cari fratelli e care sorelle, nella liturgia di oggi il Signore continua a parlarci della preghiera. Lo aveva fatto la domenica passata, proponendoci l’esempio di una povera donna senza marito che insiste con il giudice per ottenere giustizia. Dicevamo già la settimana scorsa che noi abbiamo tanto da imparare da questa anziana perché, a differenza di lei, con facilità noi ci stanchiamo di pregare o pensiamo che noi non possiamo fare niente, che è inutile e per questo non siamo perseveranti.

Certo, potremmo dire, è logico che quella vedova insisteva, non aveva scelta, nessuno avrebbe rispettato i suoi diritti, e quello era l’unico modo per continuare a vivere. E’ proprio qui il nodo: noi al fondo non crediamo che la nostra vita dipende dal Signore. Ci sentiamo uomini pieni di risorse, abbastanza per potercela fare da soli, ricchi di energie e di capacità. “Se il Signore ci aiuta, bene”, pensiamo spesso, “ma se poi non lo fa, me la caverò ugualmente da solo.” Ebbene è proprio questa la nostra incredulità che ci fa pregare poco e male. Il brano appena ascoltato dal libro del Siracide dice: “La preghiera dell’umile penetra fino alle nubi, finché non sia arrivata, non si contenta, non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto.” Sì, perché l’umile è l’uomo che sa di non farcela da solo, è il povero, è l’orfano, la vedova, il disoccupato, quello senza casa, lo zingaro, il barbone, l’immigrato. La sua preghiera arriva fino in cielo perché è insistente e non smette fino a quando non ha ottenuto quello che chiede. Quante volte noi ci secchiamo per strada perché un povero ci chiede l’elemosina con insistenza e non ci lascia stare finché non ottiene qualcosa, eppure è proprio questo quello che il Signore ci chiede di fare. Certo il povero lo fa perché quel poco che ottiene gli è indispensabile, se nessuno gli da nulla non ce la fa ad andare avanti. Per noi invece questo non vale: chiediamo già pensando che tanto ne possiamo benissimo fare a meno. Ecco da dove viene la debolezza della nostra preghiera. La scrittura oggi ci aiuta ad imparare come chiedere al Signore, come pregare.

Sì, perché la preghiera è qualcosa che si impara. Non è spontaneo pregare, né facile, è un vero e proprio lavoro: va fatto con impegno, con costanza e con fatica. La preghiera innanzitutto nasce dall’ascolto della Parola di Dio, perché si nutre della Scrittura. Il Vangelo infatti modella la nostra umanità, se lo ascoltiamo, e ci rende umili, cioè ci svela la nostra debolezza e povertà. La Scrittura ci insegna le parole con cui pregare, e ci dona il cuore con cui voler bene, quello di Gesù. La preghiera poi è “impastata” della nostra vita quotidiana. Non è possibile chiedere il bene a parole e poi continuare a vivere come sempre, indifferenti o complici delle piccole e grandi ingiustizie. Non possiamo pregare per la pace e poi essere litigiosi o aggressivi nel nostro agire normale. Non possiamo chiedere perdono dei nostri peccati e poi continuare a giudicare duramente tutti, essendo invece molto indulgenti con noi stessi.

E’ quello che fa il fariseo della parabola che abbiamo ascoltato. E’ un uomo sicuro, conosce bene se stesso, sa quante cose fa. Prega, e lo fa come uno che vive rettamente. Al contrario il pubblicano non osa nemmeno alzare gli occhi, chiede umilmente perdono per il proprio peccato. A ben vedere questo comportamento non è senza fondamento: il primo infatti faceva parte di un gruppo di giudei molto osservanti, i farisei, che avevano addirittura aumentato le regole da osservare per poter divenire degli irreprensibili uomini di religione. Egli confessa: “Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo”chi di noi potrebbe dire di fare altrettanto? Il secondo invece era un traditore della fede e del popolo d’Israele, uno di quegli uomini che facevano compromessi con i nemici della religione, il regime pagano dei romani. Insomma il primo poteva a buon diritto camminare a testa alta, mentre l’altro aveva molto di cui vergognarsi. Ebbene il giudizio di Dio su quei due uomini è capovolto. Gesù dice infatti: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato.” Cioè chi crede di essere a posto, di non avere nulla da rimproverarsi e quindi niente che nella sua vita debba cambiare, rende immediatamente la Parola di Dio inefficace. Su di lui essa scivola via, come l’acqua sopra un vetro. La sua preghiera allora non ha nemmeno la forza di salire in alto verso Dio. Il pubblicano invece sente il peso della sua vita, si accorge del bisogno che essa ha di essere perdonata, cioè cambiata dal Signore in profondità, e lo chiede. E’ un uomo che cerca, che non ha già pronte tutte le risposte e le soluzioni, che ha bisogno degli altri e del Signore, e non lo nasconde.

Care sorelle e cari fratelli, lasciamoci anche noi prendere dall’umiltà del pubblicano. Non abbiamo timore a far emergere la nostra debolezza perché il Signore la guarisca. Non chiudiamoci in un recinto di animosità, in cui sono sempre gli altri, anche Dio, ad essere in debito con noi. Non difendiamoci col filo spinato della durezza di cuore che ci fa guardare con sospetto chi ci è accanto come fosse sempre pronto ad approfittare di noi, se ci lasciamo andare. Impastiamo la nostra preghiera con questo lavoro paziente su di sé e ci accorgeremo subito dei suoi frutti. Diverremo infatti capaci di guardare il mondo con gli occhi del Vangelo e di lasciarlo entrare dentro di noi. Solo così non avremo pace finché il Signore non abbia esaudito la nostra preghiera e non saremo soddisfatti finché i nostri sogni di pace, di fraternità, di bene per tutti non si saranno realizzati.

don Roberto

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