martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - II


I tappa: Quaresima come tempo del ritorno

«Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio

Riprendiamo il nostro cammino di Quaresima, che abbiamo cominciato il mercoledì delle ceneri, soffermandoci sul primo paragrafo del brano di Gioele che ci accompagna nella riflessione in questo tempo santo.
“Suonate la tromba in Sion” (Gl 2,1) aveva detto il profeta poco prima. Ed insiste anche più oltre: “Suonate le tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un’adunanza solenne” (Gl 2,15).
Il profeta fa riferimento all’uso ebraico di suonare lo shofàr, il corno che si usava nel tempo di penitenza dello Yom Kippùr, o giorno dell’espiazione, e per gli altri grandi eventi. E’ il suono che invita alla penitenza e convoca il popolo: suono che annuncia i grandi eventi del popolo con Dio. Il nome stesso di Chiesa esprime questo senso: è la riunione di coloro che sono stati chiamati.
Il tempo della Quaresima ci si apre dunque, attraverso il suono del corno, con l’invito del Signore a incamminarci per tornare verso di lui. Questo ci rivela innanzitutto il fatto che Il tempo di Quaresima è tempo speciale e benedetto perché Dio si rende vicino, raggiungibile dagli uomini. Non possiamo disprezzarlo e vivere come sempre. Si legge infatti al capitolo 19,18-ss dell’Esodo:
“…vi furono tuoni, lampi, una nube sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosé fece uscire il popolo per andare incontro a Dio. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosé parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono. Il Signore scese dunque sul monte Sinai…”
Il Signore scese e venne a stare con gli uomini, tanto da rendersi percepibile (tromba, tuono, terremoto) e visibile (nube e bagliori di fuoco) e da parlare con Mosé a tu per tu. E’ il miracolo incredibile che gli ebrei chiamano Shekinàh, cioè l’abbassamento di Dio fino all’altezza dell’uomo. E’ un fatto straordinario, è la premessa sulla quale dobbiamo soffermarci prima di tutto: Dio si rende raggiungibile, scende alla nostra portata, ci chiede di andargli incontro perché è possibile giungere a lui.
Noi spesso preferiamo dire che non è vero, che non è possibile, che Dio è talmente fuori dalla nostra portata che non vale la pena nemmeno di provarci. Ma il Vangelo di Luca ci racconta come sia sufficiente che il figlio che aveva rinnegato suo padre e sprecato la sua vita accenni i primi passi sulla via del ritorno verso di lui che subito egli “Quando era ancora lontano … lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.” Lc 15,20.
La Quaresima ci invita innanzitutto a renderci conto della straordinarietà di questo fatto che si ripete ogni domenica quando, alla Liturgia, la tromba ci convoca a stare alla presenza di Dio che si china lui per primo sulla nostra vita e viene incontro per abitare con noi.
Quanto ci rendiamo conto di ciò? Infatti facilmente trascuriamo il suono del corno, la convocazione della Parola che proclama il desiderio di Dio di “stare con noi”. Due cose mi sembra ce lo rendono difficile: un’idea di Dio sempre a nostra disposizione, basta che noi lo vogliamo, quando ce ne ricordiamo, quando ci sentiamo, quando ne abbiamo voglia, quando non abbiamo altre priorità e occupazioni, ecc… E poi, in secondo luogo, il sovrastare su tutto del richiamo delle mie esigenze personali, delle mie questioni che ci fanno essere talmente presi da non sentire altro. La tromba dell’io invadente prevale sul richiamo di Dio.
Chiediamoci: non rischiamo di diventare sordi al suono della tromba?
La tromba in Israele suonava per convocare tutto il popolo. La liturgia, lo dice il suo nome stesso, è “l’opera comune di un popolo”. Certo noi possiamo pregare sempre e comunque, anche nel chiuso della nostra stanza (cfr. Mt 6,6), ma Dio scende solo quando il popolo è convocato.
L’incontro con Dio, ci dice il libro dell’Esodo, non è un fatto privato di Mosé. Egli infatti “fece uscire il popolo per andare incontro a Dio”. La convocazione è ad essere un popolo. Gesù dice: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro". (Mt 18,20) La presenza del Signore è dove si è riuniti in nome suo, almeno alcuni, un popolo, per quanto piccolo sia.
Perché il popolo sia riunito Gioele invita a tornare a Dio, cioè a convergere verso di Lui. La Quaresima è allora un tempo opportuno, particolarmente adatto per uscire dalla dispersione dello starcene per conto nostro e per incamminarci. Come accade quando in tanti ci si muove verso la stessa meta, più si va avanti e più ci troviamo assieme, e il fatto di essere isolati dagli altri è un segno della nostra distanza da Dio.
Se ci si ritrova da soli infatti significa che si va da un’altra parte: o si converge oppure si sta fermi o ci si inerpica in angoli sempre più isolati e nascosti da Dio. C’è bisogno di cambiare strada: chi fa sempre la stessa strada vuol dire che gira in tondo, tornando sempre sui propri passi in una spirale che ci tiene sempre alla stessa distanza da Dio. L’orgoglio ci fa credere che noi abbiamo la nostra strada particolare, la scorciatoia che fa per noi. Che ognuno ha i suoi tempi e sui percorsi personali, ma dobbiamo stare attenti, perché seguire la strada individuale che non incrocia quella dei fratelli e delle sorelle è pericoloso, perché vuol dire che ci stiamo nascondendo sempre più da Dio, anche se magari stiamo sempre in mezzo a tanta gente. Possiamo arrivare anche a pensare che essere in troppi a camminare insieme ci ostacoli e impedisca di camminare come piace a noi e come ci viene meglio. E’ un’illusione, perché sempre lo sforzo di tener lontano i fratelli e le sorelle da sé fa sì che permanga la distanza da Dio
Chiediamoci: sono partito per il santo viaggio, mi sto avvicinando a Dio e pertanto ai fratelli e sorelle? Cammino insieme ai fratelli verso Dio, o mi allontano da lui, e per andare dove?
Gioele insiste sul cuore: “ritornate con tutto il cuore, ... Laceratevi il cuore” Ma che vuol dire? Camminare è un fatto pratico, mica di sentimenti? Dicevamo già l’altra volta della separazione che viviamo spesso fra il nostro vivere concreto, l’agire e il nostro cuore, quello che sentiamo dentro.
Le nostre azioni infatti ci sembrano non richiedere uno sforzo interiore. Il nostro vivere fluisce spontaneamente, su un binario suo, così come “ci viene”. Questo fa sì che reagiamo non per una decisione interiore, ma per istinto, ci comportiamo in modo piuttosto ripetitivo, facciamo quello che ci viene e come ci viene. Il più delle volte in modo aggressivo e brusco, oppure spaventato, che poi è lo stesso. A volte ne facciamo un valore: agisco così perché sono sincero, cioè esprimo quello che mi viene spontaneo senza cercare di modificarlo. Oppure lo prendiamo come un dato di fatto che gli altri non possono che accettare: sono fatto così, è il mio carattere, come fosse un destino immutabile. E’ chiaro che questo modo di essere fa scomparire l’altro, perché non ha importanza chi ho davanti, la situazione in cui sto, la mia reazione è quella che mi viene sempre.
La sapienza della Scrittura ci insegna invece che le parole e le azioni dell’uomo non vengono per caso o non devono essere necessariamente come ci vengono, ma rivelano la sua interiorità, e che un certo modo di fare rivela il cuore che lo ispira, per questo bisogna partire dal cuore per cambiare la vita:
“La sorgente può forse far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara? Può forse, miei fratelli, un albero di fichi produrre olive o una vite produrre fichi? Così una sorgente salata non può produrre acqua dolce. Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. … dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni.” Gc 3, 11-16
“Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d'altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Lc 6,43-45
Luca paragona il cuore ad un tesoro, cioè a qualcosa nel quale accumuliamo nella lunghezza degli anni, con pazienza e fatica, cose preziose. Per questo al momento opportuno vi troviamo ciò di cui c’è bisogno. Se non accumuliamo niente o vi facciamo penetrare il male, alla fine non avremo niente da tirare fuori o solo la propria naturalezza violenta e scostante.
Alla luce di queste parole della Scrittura, pensare che il nostro carattere è un dato che non dipende da noi e che è giusto dare libera espressione alla naturalezza di sé vuol dire condannarsi ad essere schiavi dell’istinto, che è sempre malvagio. Ma la Scrittura proclama la libertà del discepolo da ogni schiavitù, fosse quella del carattere o della naturalezza, se parte dal cambiamento del suo cuore: “Il cuore di un uomo cambia il suo volto sia in bene sia in male.” Sir 13,25 e “Principio di ogni opera è la parola, prima di ogni azione c'è la riflessione. Radice di ogni mutamento è il cuore, da cui derivano quattro scelte: bene e male, vita e morte.” Sir 37,17.
Cambiare il cuore allora non solo è possibile, ma è necessario per incamminarci verso Dio. Partire dal cambiamento del nostro cuore per imboccare il sentiero giusto che non mi tiene alla larga dei fratelli, ma anzi mi unisce a loro in un cammino comune.
In questo senso possiamo dire che la Scrittura ci restituisce il cuore, perché la sua sapienza antica ci ridà letteralmente questa dimensione e la possibilità di viverla in modo pieno. La nostra cultura contemporanea infatti spesso spezzetta il cuore in tanti segmenti indipendenti: coscienza, volontà, psicologia, spirito, anima, cultura, ecc… come brandelli di un cuore depotenziato e, poiché sezionato, morto. Con la volontà di spiegare razionalmente e motivare i fenomeni si finisce per affermare il meccanicismo del loro apparire ed evolversi, come leggi naturali a cui sottomettersi impotenti. No, il cuore è il tesoro che noi accumuliamo, o dilapidiamo, sono le risorse di bene o di male che possiamo utilizzare nei momenti in cui ci sono necessarie, ma che noi accantoniamo nel corso di tutta la vita.
Non si dica di noi ciò che dice la Scrittura del re Roboamo: “Egli fece il male, perché non aveva applicato il cuore alla ricerca del Signore.” 2Cr 12,14
Chiediamoci: quanto penso che il mio modo di essere possa cambiare, e come partire dal cuore può cambiare la mia vita?
Infine Gioele indica una strada per lavorare sul cuore: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.”
Possiamo interpretare il digiuno come astenersi da tutto ciò con cui noi ci rimpinziamo per soddisfare il bisogno di felicità che tutti sentiamo. Troppo spesso infatti accettiamo il cibo fasullo che è sempre disponibile e a buon mercato: il consumismo, le soddisfazioni del successo e della supremazia sugli altri, il senso di sé, ecc… E’ un cibo che riempie ma non nutre, in una sorta di bulimia affannosa che però lascia deperire, fino alla morte, il cuore. Non obbediamo in modo istintivo e superficiale a tutte le domande dei miei bisogni: ho fame, voglio, mi sento, mi va … Digiuno è, nelle Scritture, il compagno inscindibile della penitenza. Infatti quello che si sente con il cuore si fa anche con il corpo. I sentimenti del cuore diventano atteggiamenti del corpo, della bocca, del volto, delle mani, dei piedi…
Nutriamoci di ciò che vale: la Parola di Dio, l’eucarestia, unico vero pane e unica vera bevanda che sazia e nutre il cuore per la nostra salvezza.
Digiunare è vivere una disciplina del restringimento del mio io che si allarga sempre più fino a escludere gli altri. L’io si fa forte affermando: sono fatto così, sono i miei bisogni, è il mio modo di essere, ho diritto di questo, mi viene … Non si può credere nel mio spontaneismo buono. Senza la disciplina dell’io, che è il digiuno, quindi la fatica, non si ritorna a Dio. Dice San Benedetto, all’inizio della sua Regola: “Mediante la fatica dell’obbedienza, tu possa ritornare a colui dal quale ti eri allontanato mediante la pigrizia della disobbedienza”.
Ma poi anche il lamento e il pianto. Significa non rifiutare o mascherare quella dimensione di fragilità e vulnerabilità umana che noi cerchiamo sempre di nascondere se non negare in radice. Accettiamo il pianto per il dolore che vediamo, e facciamo nostro il lamento di chi sta male e non la lamentela vittimistica ed egocentrica che mette al centro sempre e solo sé.
Chiediamoci: di quali cose devo digiunare per coltivare un cuore di carne, quale il lamento da fare mio per condividere assieme al dolore, la salvezza ?


Preghiera di Quaresima

Luca 7,1-10

Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao. Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l'aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: "Egli merita che tu gli conceda quello che chiede - dicevano -, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga". Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: "Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di' una parola e il mio servo sarà guarito. Anch'io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: "Va'!", ed egli va; e a un altro: "Vieni!", ed egli viene; e al mio servo: "Fa' questo!", ed egli lo fa". All'udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: "Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!". E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

Commento
Il brano evangelico che abbiamo ascoltato ci pone davanti la realtà della fragilità umana che spesso noi sfuggiamo. Sì, la vita dell’uomo contiene in sé anche la morte, potremmo dire che la vita porta nella sua essenza una dimensione agonica di lotta fra vita e morte. Lo vediamo meglio in talune situazioni, in caso di malattia o di vecchiaia, ma possiamo dire che ognuno è esposto alla morte in ogni momento. Capisco che un senso di istintiva repulsione ci fa dire che è meglio non pensarci, e certamente non può essere il nostro pensiero più frequente, ma è comunque una dimensione che non possiamo sempre evitare.
Il centurione che parla con Gesù è un uomo importante, potente e rispettato, e in fondo la sua situazione poteva porlo al riparo dal dover affrontare il tema della morte di un servo, uno che non contava niente. Il vangelo dice però che “l'aveva molto caro”. È l’amore infatti che ci rende capaci di non fuggire davanti alla morte e al dolore, ma anzi, ancora di più, ci fa lottare anche davanti al caso disperato, quando niente sembra più aver senso fare. E’ il caso del centurione: il servo è moribondo ma lui invoca il Signore, pur essendo pagano. L’amore infatti accorcia ogni distanza, direi che amare un uomo che soffre ci pone in comunicazione diretta con Dio, nonostante la nostra distanza o indegnità. Il dolore vissuto, anche quando non è il proprio, affina la sensibilità e acuisce il dono di intercessione. Proprio questa condivisione del dolore del servo rende il centurione capace di vivere una fede che non ha bisogno di toccare o vedere, ma che sa di non rivolgersi invano a Dio, perché la sua parola è efficace e potente, come lui afferma esplicitamente.
Gesù ascolta quell’invocazione, e lui per primo si muove verso la casa del centurione. La misericordia di Dio si china su chi lo invoca, si fa docile e arrendevole alla voce di chi si fa carico della sofferenza altrui. La shekinà del Signore Gesù è questo suo farsi carico del dolore di tutti, anche del nostro, anche di quello del dimenticato, che nessuno conosce o ricorda.
La Quaresima sia anche per noi occasione per sperimentare la vicinanza di Dio nella condivisione del dolore dei fratelli più poveri. Nel buio della disperazione la fiducia nel Signore ci fa intravedere l’alba della resurrezione, così come all’inizio di questo nostro cammino di Quaresima intravediamo in lontananza il bagliore di uno splendore che ancora facciamo fatica a decifrare.
Incamminiamoci fiduciosi verso quella luce, è debole e intermittente, quasi scompare nel confronto con le luci ben più potenti che ci abbagliano quotidianamente, ma sentiamo che contiene un calore e una verità che le altre non hanno.

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