lunedì 26 aprile 2010

Incontro inizio 2007

Ci siamo radunati oggi in questa casa nel centro di Terni per fermarci un po’ all’inizio di un nuovo anno. Forse, potremmo dire, l’anno ormai è già cominciato, le scuole hanno riaperto, il lavoro è ripreso, la vita normale già da tempo ha ripreso il suo ritmo. La vita del mondo infatti non ama fare pause, ma è tutto un continuo. La vita continua i ritmi di sempre, perché fermarsi a riflettere? Sappiamo già cosa dobbiamo fare, le consuetudini e le abitudini sono come dei comodi binari che ci aiutano a marciare senza dover decidere ogni volta la strada. C’è un senso scontato della vita che rischia tante volte di farci andare avanti senza renderci bene conto dove andiamo, perché proprio in quella direzione, solo perché è quella di sempre?

Per questo il ritmo del vivere si fa sempre più veloce.
Nella società moderna chi si ferma è perduto, siamo nel regno della velocità, del vivere senza interruzioni. Il tempo deve essere tutto riempito di cose da fare, in rapida successione, senza spazi vuoti. A volte ci capita di vivere con fretta alcuni impegni, le cose che facciamo, ma non tanto perché sono urgenti o hanno una scadenza fissata, ma solo perché siamo abituati a vivere con questo ritmo, il ritmo della televisione, delle pubblicità, degli affari. Tanto che mentre facciamo una cosa siamo già con la mente a quella successiva, preoccupati se faremo in tempo.
E poi nel mondo di oggi tutto ha un senso e un valore solo se ha un risultato immediato. Se non lo vedo subito ho perso tempo, ho sprecato fatica. Se non ottengo subito qualcosa a che serve darsi da fare? E’ un ragionamento molto diffuso oggi, che nasce da una mentalità commerciale, affaristica, secondo la quale tutto quello che si fa e si pensa ha valore per quello che frutta, per quanto ci guadagno, in denaro o in vantaggi o considerazione o successo o altro. Se non vedo subito il guadagno, è tempo perso.

Ma poi c’è un altro fenomeno, e cioè che quello che conta è che il mio vivere sia finalizzato a me stesso. Anzi tutto quello che faccio per me è sacrosanto. Questo ha portato anche una piccola rivoluzione dei termini che si usano. Ad esempio se uno passa un pomeriggio in poltrona a non fare niente, un tempo avremmo detto che uno è pigro o indolente, oggi, no, si dice che “ha bisogno di dedicare più tempo a se stesso”. Se uno è possessivo e tiene tutto per sé un tempo si diceva che era avaro, oggi diciamo che “da’ il giusto valore alle cose”. Se uno passa mezza giornata davanti allo specchio, e l’altra metà fra palestra e estetista un tempo si diceva che era un vanitoso, oggi si dice che “cerca di avere un buon rapporto con il proprio corpo”. Cioè anche quello che è evidentemente inutile deve trovare un modo per dire che invece serve a qualcosa e a qualcuno. Siamo insomma nella società dell’utile.

E’ chiaro che in questo clima quello che viene sacrificato per primo è il tempo considerato inutile e le persone considerate inutili. E’ il tempo della riflessione, il tempo della preghiera, il tempo dell’incontro con l’amico, il tempo della lettura della Scrittura, ma anche il tempo dedicato all’altro, ad ascoltarlo, ad aiutarlo se ha bisogno, senza guadagnarci nulla. Sono cose, tutte queste, assieme a tante altre, che non servono a nulla, perché non producono, non rendono, non ci fanno guadagnare e non sono utili a me stesso. Ma poi si considerano inutili i vecchi, che non producono, i deboli, i disabili, i poveri, perché sono di peso alla società.

Oggi però abbiamo voluto contraddire questa mentalità e il modo di vivere che ne deriva. La decisione di venire qui insieme, a guardarci in faccia, ad ascoltare, a parlare, in compagnia della Bibbia è una perdita di tempo che farebbe inorridire molti nostri concittadini. Ma come, con tutto quello che ho da fare, quanto tempo perso! Quanti esercizi in palestra, o quanti panni stirati, o quante telefonate perse al cellulare, la puntata persa della trasmissione che preferisco in TV, il tempo per “star bene con me stesso”, ecc…! Eppure per noi cristiani fare ogni tanto una sosta, in compagnia dei fratelli e delle sorelle, in compagnia della Bibbia, senza fretta o obiettivi immediati da raggiungere è qualcosa di indispensabile. E’ questo il senso della liturgia domenicale, e sapiente è la Chiesa che ha posto il “precetto domenicale”: almeno una giornata ogni sette férmati ad ascoltare, assieme ai fratelli e alle sorelle. Per noi questo è come l’aria che ci serve per respirare. Viviamo immersi nella società della fretta e della corsa dietro all’utile, ma ogni tanto abbiamo bisogno di una boccata di aria pulita, di quiete e di pace, per dare aria alla nostra anima.

In fondo possiamo dire che già il fatto di stare qui è una piccola rivoluzione che contraddice la mentalità corrente. Umile rivoluzione, ma di cui siamo orgogliosi, perché la Parola di Dio ci preserva dal lasciarci trascinare dalla corrente della vita che ci porta dove vuole lei.

Vogliamo allora gettare insieme uno sguardo sul mondo di oggi, e lo facciamo alla luce della Parola di Dio, come dice il Salmo: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino.” (Sal 119, 101)

Uno dei tratti del mondo in cui viviamo è lo stato di perenne insoddisfazione in cui la gente vive. E’ tipica la risposta che riceviamo spesso quando si chiede “Come stai?” o “Come va’?” La risposta sarà sempre la stessa: una scontentezza mezza mezza. Ma non perché sia successo qualcosa o ci sia un problema reale, come potrebbe capitare. No, anche se non è successo niente di grave si è scontenti. Mai però addolorati o felici per qualcosa che è successo ad un altro. Si vive un malessere diffuso, una scontentezza latente, un lamento a mezza bocca. Non si trova nella propria vita motivi seri né per addolorarsi, né per gioire. E’ quello che notò Gesù:
A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato;
vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!
E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori
.” (Lc 7,32)
L’uomo e la donna di oggi vive insomma incapace di trovare un motivo per cui valga la pena addolorarsi, anche se a volte ce ne sono, né per gioire. E’ questo però che tante volte sta alla radice di tanta infelicità. La possiamo chiamare depressione, malinconia, vittimismo, ma ha sempre una radice comune, e cioè il vivere una vita che ruota attorno a se stesso. E’ questo infatti il tratto comune: conta solo quello che sento io, conta quello che conviene a me, conta quello che io faccio o che gli altri fanno a me. Tutto il resto diventa lo scenario sul quale si svolge il film della mia vita. Gli altri sono comparse, persone che mi sfiorano, ma quanto lasciano un segno su di me? Quanto influiscono sul mio vivere, sulle mie decisioni. Quanto sono significativi gli altri?

Dice il libro dell’Apocalisse: “All`angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.” (Ap 5,14-22)

Dio parla ad una comunità di cristiani e li definisce tiepidi, né caldi né freddi, né felici, né infelici, né soddisfatti né insoddisfatti. E’ il ritratto dell’uomo di oggi. Questo loro stato però è talmente estraneo a Dio che egli li vomita, come qualcosa di inconciliabile con sé, come qualcosa di velenoso, che fa male al corpo largo della Chiesa che ha Dio come capo e che va al più presto espulso.

A queste persone però la Scrittura non propone di vivere come degli esaltati. Non chiede di passare dalla disperazione all’euforia. Il problema non è essere artificiali e vivere in una realtà drogata o da esaltati. Non è questa la soluzione.

Le parole dell’Apocalisse mettono in luce il motivo di questo stato di cose, dicendo: “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.” Cioè questo modo di vivere insoddisfatti nasce dal credere di poter vivere senza gli altri, di essere autosufficienti. Al massimo agli altri gli lasciamo un angolo, quando ci sentiamo, quando ci va’. E’ chiaro che a forza di stare soli con sé tutto diventa grigio e senza passioni, mediocre e senza gusto.

Ma il cristiano non sta con gli altri per buona educazione o per concessione, o solo quando gli serve, ma perché ne ha bisogno. Potremmo dire che il cristiano è colui che vive sapendo di non poter fare a meno degli altri. Sentirsi non bisognosi degli altri, ci nasconde infatti la nostra vera identità di poveracci, bisognosi, ciechi e nudi.

Ma quali sono i modi con cui noi escludiamo gli altri dalla nostra vita? Certo noi non viviamo nelle caverne, non prendiamo a pugni ognuno che ci si avvicina. Eppure ci sono dei modi più sottili ed educati per tenere alla larga gli altri.

Il primo modo è trattare tutti un po’ di fretta, credendo di aver già capito che tipo è l’altro, che non ho bisogno di capirlo. E’ un modo per credersi capaci, esperti, portati al rapporto, per cui gli altri li capisco al volo, so come rispondere, ho le soluzioni, li inquadro subito che tipi sono, di cosa hanno bisogno. In realtà così facendo neanche mi accorgo di chi ho davanti, sono un po’ tutti uguali, tendenzialmente tutti un po’ scocciatori, o potenziali tali. Pensiamo alla difficoltà ad esempio a vedere nelle tante persone che vengono al centro di accoglienza tanti volti diversi, persone ciascuno con la sua storia, col suo bisogno, con i propri sogni, delusioni, ferite, gioie. Quanto poco basterebbe: fermarsi un po’ e ascoltare, parlare, domandare, lasciarsi toccare.

Poi c’è il modo di chi non si sente portato ai rapporti. E’ un tipo in genere maschile. Chiedetemi di fare tutto, e mi farò in quattro, ma io a parlare non ci sono portato. Quando si presenta l’occasione di fermarsi con qualcuno c’è sempre qualcosa di più urgente da fare. Degli altri in fondo abbiamo un po’ paura, ma siamo anche abituati a farne a meno.

Poi c’è il modo per cui gli altri sono il mio pubblico. Io parlo, loro ascoltano, al massimo mi danno ragione. Un modo con cui contrabbando con la socievolezza e la facilità di rapporti il tentativo di non lasciarmi toccare dagli altri, pur non potendo fare a meno di stare insieme a tanti.

Poi c’è quello per cui gli altri sono fantasmi: quando li ho davanti grandi dichiarazioni d’amore, promesse di fedeltà, poi però basta non averli più davanti e si sciolgono come fantasmi, inconsistenti, senza carne né un nome.
Ciascuno potrebbe descrivere il proprio modo con cui esclude gli altri dalla propria vita, perché poi ciascuno si crea un modo suo e diventa specialista.

Il Signore però non si accontenta di vederci chiusi nel nostro vivere difendendoci e chiudendoci agli altri, per questo insoddisfatti, né caldi né freddi. Lui bussa alla porta del nostro cuore perché la nostra vita non giri attorno a me stesso, ma attorno ad un altro: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono.”

Il Signore tenacemente e insistentemente bussa alla nostra porta perché noi apriamo la porta del nostro cuore. Bisogna ascoltarlo, e poi lui farà tutto: entra, ci fa cenare con lui, ci fa sedere accanto a lui, sul trono, ci renderà vincitori sull’isolamento e l’insoddisfazione da cui questo mondo ci vuole vedere vinti.

Basta ascoltarlo, accogliere le sue parole, farle scendere nel cuore, crederci, sentirle importanti, ricordarle e poi il Signore farà tutto lui. Anche se tu non ti senti portato, o ti sembra troppo difficile per te, il Signore fa tutto lui, se tu lo lasci agire dentro il tuo cuore.
Non è questione allora di essere portati o esperti, è questione di voler ascoltare il Signore che parla e dargli ascolto, o preferire di chiudere orecchi e cuore e continuare a credersi ricco e autosufficiente, insoddisfatto e tiepido davanti alla vita.

Ma come fa il Signore a bussare alla nostra porta? Io credo che ci sono due modi concreti e alla portata di tutti: con la sua parola e attraverso i poveri.
La Parola di Dio è la sua voce, è il modo con cui si rivolge a noi. A volte però noi pensiamo di conoscerla già, l’abbiamo ascoltata tante volte. Ma ogni volta il Signore si rivolge a te, ti vuole toccare, convincere, ti rivolge una domanda. Possiamo dire che la prova che abbiamo ascoltato è se ci sentiamo rivolta una domanda. “E tu?” Se non ce la sentiamo, vuol dire che siamo rimasti sordi, che Dio non ci ha parlato o meglio noi ci siamo tappati le orecchie del cuore e non lo abbiamo voluto sentire. Per questo devono essere sempre più centrali nella nostra vita i momenti di ascolto della parola di Dio: la domenica a messa, il mercoledì alla preghiera, ogni volta che la apriamo e la leggiamo. Sono tutte occasioni in cui Dio cerca di farci concentrare non attorno a noi stessi, ma attorno a lui.
Poi c’è l’altro grande modo con cui il Signore bussa ai nostri cuori ed è attraverso l’incontro con i poveri. Il mercoledì, al centro di accoglienza, o il sabato in istituto, o alla mensa o al campo nomadi, o tutte le volte che incontriamo un povero è Dio che bussa al nostro cuore e vuole parlarci. Lo sappiamo quello che dice il vangelo di Matteo: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete ospitato, ecc…”. Gesù non dice che era un povero buono, o che era un affamato che non diceva bugie, o uno straniero santo e pio. Dice solo “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l`avete fatto a me”. Cioè il povero di per sé è, come dicevano gli antichi padri della chiesa, Teoforo, cioè portatore di Dio.

A questo proposito vorrei raccontarvi una cosa successa in questi ultimi giorni e che mi ha colpito molto. Sapete che è venuta a Terni la statua della madonna di Lourdes. Tante persone l’hanno attesa, accolta e accompagnata in chiesa e davanti a lei si è pregato molto. Tutte cose belle. Poi, giovedì, la statua è stata portata all’Istituto Tiffany, dove vivono un centinaio di anziani, molti dei quali soli. Centinaia di persone si sono recate al Tiffany in quell’occasione per venerare la statua, ma io mi chiedo: e tutti gli altri giorni dell’anno in cui Cristo è presente in modo fisico, reale e concreto in quei poveri vecchi dimenticati, e non solo in effigie, come nel caso della madonna di Lourdes, perché nessuno pensa che sarebbe bello andare a venerarlo in quelle persone vive?

Se apriamo la porta a quell’”altro” che bussa ascoltandolo e incontrandolo personalmente nascerà nel nostro cuore una passione calda che farà smettere di essere tiepidi. Sì saremo felici se vivremo una passione per l’altro, per il fratello che vediamo in difficoltà, per l’amico dubbioso e deluso, per il povero solo, per chi non sa a chi chiedere, per la sorella che spreca la sua vita dietro a tante cose che non valgono. La passione farà trovare le parole anche a me che credevo di non essere capace a dirle, mi darà coraggio, audacia, tenacia a restare vicino, nonostante tutto. E’ la passione calda per l’altro che ci rende capaci di fare anche quello che non abbiamo mai fatto. L’altro allora diventa decisivo, non ci daremo pace finché non avremo trovato le parole giuste per fargli capire quanto ci teniamo. Non ci accontenteremo di provarci, dovremo riuscire a tutti i costi. Non saremo delusi se a volte i poveri ci sembrano ingrati o poco gentili, ma non ci daremo pace finché il nostro modo di stare con loro non divenga così traboccante di amore che non potrà non suscitare gratitudine e disarmare i cuori aggressivi. Questa passione ci scalderà il cuore e non saremo più tiepidi e mezzi mezzi, ma insofferenti che troppa gente sta sola, che c’è chi ha tutto e chi muore di fame, che una città si rivolta contro un pugno di zingari inermi come minacciassero per davvero la nostra sicurezza.
E’ questa passione e non i nostri sforzi di volontà che ci renderanno capaci di essere fedeli ai nostri amici, ai poveri, a non dimenticarli. E’ questa passione che ci renderà capaci di ascoltare chi ci sta di fronte perché vogliamo conquistarne il cuore e non solo classificarlo e al massimo fornirgli la risposta giusta. E’ vivere questa passione per l’altro l’unico modo per accorgerci di quanto ci sta vicino il Signore, di come insiste con noi, senza stancarsi, di come ci protegge dal male, come ci incoraggia, ci perdona, ci sostiene, ci preserva e ci ama.
Secondo me è questo il senso delle parole di Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” (Mt 16,24) Non credo che Gesù volesse dire che ciascuno di noi deve vivere quello che lui ha vissuto, né che deve morire in croce. E mi sembra volgare voler comparare le proprie piccole sofferenze con la croce di Gesù: ben pochi al mondo possono dire di avere sofferto quanto lui. Gesù vuol dire che essere suoi discepoli significa vivere la stessa sua passione per gli uomini che ha avuto la sua massima espressione nella croce. Cioè una passione che ha saputo affrontare tutto, persino la morte, per gente che non lo aveva capito, che lo aveva tradito ed era scappata via, convinto che un amore appassionato per gli altri vince su tutto. E così è stato con la sua resurrezione.

Fratelli e sorelle questa è la prospettiva con cui vogliamo iniziare un anno, e cioè imparare a vivere non come uomini e donne ripiegate su di sé, né calde né fredde, deluse e insoddisfatte, ma come persone appassionate per un fratello, per una sorella, per un povero, per tanti poveri, appassionati per il vangelo che scopriamo sempre di più essere il modo più bello di vivere.

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