martedì 27 aprile 2010

Meditazioni Quaresima 2010 - V


IV tappa: Essere ministri del perdono di Dio per proteggere il mondo dal male

Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».

La volta scorsa dicevamo che siamo tutti invitati a far parte di un popolo, il quale, continuiamo oggi, svolge un compito particolare: il sacerdozio universale. La frammentazione in tanti “io” individuali fa svanire la storia, cioè il cammino comune dell’umanità. Nel mondo dell’affermazione del singolo niente ha rilevanza al di fuori della vicenda personale e individuale e assurge a vicenda di rilevanza comune. Infatti nella nostra epoca assistiamo ad una stagnazione della storia, basti pensare la piccolo della realtà italiana in cui in questi gironi assistiamo allo spappolamento della storia in un ginepraio di polemiche e scontri di tanti io che si contrappongono e cercano di prevalere uno sull’altro in nome di nient’altro che della propria autoaffermazione e non per realizzare un progetto o cambiare la realtà in una definita direzione.
Il popolo convocato da Dio invece, ci dice Gioele, ha un ministero, una vocazione nella storia dell’umanità: rendere accessibile il perdono di Dio all’umanità intera.
Paradossalmente è proprio il fatto di rinunciare all’imporsi del mio io per confondermi in un popolo, e quindi un atto di umiltà e diminuzione di sé, a porre il popolo al riparo dal rischio di perdere la propria vita e di metterla al sicuro sotto la protezione di Dio. Ancora una volta emerge come non sia l’irrigidimento, così diffuso, difensivo e spaventato o la chiusura in ambienti circoscritti a poter dare sicurezza e felicità, ma anzi l’allargamento del proprio orizzonte fino a coinvolgere tanti che non ne fanno parte “naturalmente”.
Ma cosa vuol dire vivere questa vocazione ad avvicinare gli uomini al perdono di Dio?
Per ricevere il perdono bisogna rendersi conto di avere accolto in sé il male e, in questo modo, di aver collaborato alla sua affermazione nel mondo. Domenica scorsa, parlando della parabola del figlio prodigo, dicevamo come entrambe i figli sono distanti dal padre, dal suo modo essere buono, generoso e misericordioso. Ma quello che differenzia i due, e che permette al primo d salvarsi, è il suo rientrare in sé stesso (cioè nello spazio dell’interiorità di cui abbiamo tanto parlato), rendersi conto di aver fatto entrare il male nella propria vita e la decisione di mettersi in cammino per tornare dal padre umile e pentito. Il secondo figlio non lo fa: anche se la distanza da percorrere è molto più breve e il padre lo supplichi, egli resta fuori e non vuole entrare nella casa in festa.
Il secondo figlio resta solo, convinto di essere nel giusto, non si mescola alla famiglia in festa e nemmeno saluta il fratello tornato. Rifiuta di far parte di quel popolo festoso. Per questo è triste.
Il primo figlio si umilia, chiede perdono e viene accolto e festeggiato. Per questo è felice.
La tristezza è un modo d’essere così diffuso fra la gente che ci sta accanto, e anche in noi, proprio per questo rifiuto di fare come il figlio più giovane e restarsene soli e scontenti.
Vivere la gioia del Vangelo allora significa sottomettersi al giogo leggero del Vangelo farsi umili nel riconoscersi bisognosi di cambiare vita secondo le parole del Signore e ricevere così il vestito nuovo, l’anello e la festa del padre.
Ma non è una contraddizione in questo tempo di pentimento chiedersi di essere felici? L’Apostolo dice ai cristiani di Filippi: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi” (Fil 4,4-9).
Come vivere la vocazione a trovare nel perdono la gioia vera in un tempo, come il nostro, in cui si cerca il piacere individuale, la soddisfazione personale, ma poco la gioia?
Gesù, al momento di lasciare i suoi, ha detto: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Sì, egli parla della “pienezza della mia gioia” (Gv 17,14). Infatti la sfida della gioia è decisiva per noi cristiani. La gioia è il segno che un cristiano e una comunità hanno chiesto e accolto lo spirito di Gesù che fa cambiare vita. La Pasqua è gioia: assumere la gioia in noi, perché la vita ha vinto la morte. La Quaresima è allora tempo per prepararsi a ricevere e a non sprecare il dono della gioia del risorto che restituisce la vita del perdono dove regnava la morte del peccato.
Abbiamo paura della gioia di Gesù e preferiamo la tristezza della nostra vita, perché crediamo che ci renda padroni della nostra esistenza. Siamo tristi padroni di un mondo angusto. Ci si lamenta, ma si resta prigionieri. La gioia ci consegna allo spirito, alla comunione, ci fonde in un popolo gioioso in festa. La gioia è la fine della schiavitù del mio io individuale.
Ma chi considera quella come una liberazione? Meglio essere tristi, che perdere il controllo delle proprie passioni, dei propri sentimenti, dei propri calcoli. Così ci si infossa in un’abitudine, che è quella di tanti uomini e donne, che non si pentono, non sentono il bisogno di essere perdonati e che per questo non cambiano e non esultano. Questa, cari amici, è l’umanità prigioniera di sé. E’ anche la nostra umanità europea, che non sa amare, gioire, ma solo lamentarsi. Né fredda, né calda.
La Pasqua si fa prossima e questo ultimo tratto di Quaresima ci vuole preparare alla liberazione, e ci dice: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”.
Infatti Neemia, quando presiede alla rinascita della fede d’Israele, dopo la lettura della Torah che era andata perduta ed è stata ritrovata, dice: “non vi rattristate; perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Neemia 8,10).
Ma come essere gioiosi di fronte alle tante difficoltà, agli umori e sentimenti della propria vita, al limite di essere piccoli e mortali? Ogni giorno c’è un motivo soggettivo o oggettivo per non essere gioiosi. L’apostolo indica una via di libertà che parte da un’affermazione: “Il Signore è vicino!” (Fil 4,5). Si tratta di una vicinanza che ciascuno è chiamato a vivere, direi a sperimentare attraverso la liberazione dalle angustie. Noi, infatti, ci angustiamo: viviamo nelle angustie, ci lamentiamo delle angustie, ma alla fine siamo gente angusta.
Ma come diventar liberi dalle angustie? L’apostolo indica una via che mira alla liberazione nella gioia, ma che trova la sua radice nel fatto che sappiamo che il Signore è vicino: “in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste” (Fil 4,7). Perché Dio è vicino: questa è la nostra fede.
Sì, esporre a Dio le nostre richieste. Abbiamo bisogno, chiediamo! Dio, nella visione di Paolo, diventa il confidente dei propri problemi, di quelli che ci stanno a cuore. Questa, cari amici, è la preghiera: fidarsi di Dio. Infatti le richieste vanno esposte al Dio vicino, con preghiere, suppliche e ringraziamenti.
Chi prega si ritrova figlio, per questo la preghiera di Gesù comincia con la parola “Padre”. Per questo lo Spirito ci rende figli adottivi, tanto che gridiamo “Abba, Padre”. La preghiera rivela che un adulto, un vecchio, trova in Dio un padre. La mia non è una vita casuale, di un orfano che deve strappare qualche beneficio all’esistenza; ma è invece fortemente amata da Dio che è un padre generoso fino all’eccesso. Dio è tanto grande da amare pure me, da tenermi in questa sua grande famiglia di donne e di uomini che egli ama in modo personale.
L’apostolo invita a pregare “Con preghiere, suppliche, ringraziamenti.” (Fil 4,7) Sì anche i ringraziamenti: infatti non c’è rapporto umano vero da cui si possa bandire la gratitudine. Un uomo che non dice “grazie”, non sa pregare. Il grazie è l’inizio della gioia, perché è la coscienza di aver ricevuto doni e di essere amati.
Dice l’apostolo: la forza cristiana è l’affabilità: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4,5). E’ quella tenerezza di Dio di cui parlavamo le settimane scorse, che dobbiamo far entrare nel nostro cuore squarciato. E’ una dote per tutti, senza esclusione. Non c’è chi è portato o adatto e chi no. Se non si è amabili, cioè con cuore intenerito, si è tristi. La parola “epieikés”, tradotta con amabilità, in Tito con mansuetudine, rappresenta un uomo forte, capace di vivere con gli altri. I cristiani sono gente che sta bene con gli altri, che ha il suo posto in un popolo e fuori di esso è spaesato e sperduto. La gioia del Signore è la forza di questi uomini.


Preghiera di Quaresima

Filippesi 2,1-11
Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri.

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
"Gesù Cristo è Signore!",
a gloria di Dio Padre.

Commento
Cari fratelli e care sorelle, l’Apostolo afferma che la pienezza della sua gioia deriva dell’amore unanime e la carità che vivono i suoi discepoli di Filippi. E’ la bellezza che si propaga da un popolo che sa vivere la priorità dell’amore vicendevole e, con cuore tenero, fa spazio a ciascuno. E’ la prospettiva che questa Quaresima ci propone anche a noi: prepararci a vivere la commozione per il Signore della passione e non fuggire da lui.
Chi è solo dove trova questa forza? Chi ha un cuore abituato e insensibile dove trova il motivo per farlo?
Noi lo vogliamo fare perché è questa la nostra gioia. Non viene infatti la felicità dal mettersi al di sopra di tutti, capaci di vedere solo i propri guai e malanni e lamentandosi come fossero gli unici drammi della terra.
Al contrario, l’Apostolo ci esorta a “considerare gli altri superiori a se stesso” cioè a mettere al centro la difficoltà, il dolore, ma anche la gioia dell’altro per godere della vera gioia.
Paolo propone la via dell’umiltà, dell’abbassamento, del rinunciare a imporre sé stesso come fece Gesù. E’ una strada che lui ha percorso per prepararla per ciascuno di noi. Se saremo pronti a seguirlo, con umiltà e semplicità, facendoci compagni dei poveri e dei fratelli e delle sorelle, attraverso il buio della passione potremo anche essere testimoni della vittoria della vita sulla morte e del bene sul male.

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