venerdì 30 aprile 2010

Immagina un mondo senza bambini soldato





Immagina un mondo senza bambini soldato!
il lavoro di giovani ternani per liberare
dalla guerra tutti i giovani del mondo






Convegno
Palazzo Gazzoli – sala rossa - Mercoledì 8 giugno 2005



Questo incontro ha una duplice ambizione: Parlare di bambini soldato. Parlare di giovani oggi. Il tema della guerra e quello dei giovani sono accomunati da un fatto: se ne è detto e scritto tanto. Ne parla la TV, ne scrivono i giornali. Esperti, psicologi, sociologi, ce ne spiegano continuamente le dinamiche, le espressioni, le implicazioni individuali e sociali. Anche un altro fatto però hanno in comune: se ne parla tanto, ma senza guardarli in faccia, sempre con la mediazione di chi “sa già” ed ha già una spiegazione per tutto.
Come gruppo dei giovani della parrocchia di Santa Croce abbiamo voluto guardare la guerra con gli occhi dei più giovani, quelli dei bambini soldato. Abbiamo così scoperto che il mostro della guerra non solo ai giovani rende la vita impossibile, ma anche quando, bontà sua, non li fa morire, se li mangia e gli ruba la vita. Sono milioni gli anni di vita rubati ai 500.000 mila soldati sotto i 16 anni che combattono, saccheggiano, uccidono in tanti Paesi di tutti i continenti. E’ una montagna di innocenza violata, di futuro bruciato, di sogni negati.
Che fare?
Ce lo siamo chiesti qualche mese fa davanti a dei video che ci mostravano ragazzini di Freetown e di Gulu abituati ad ammazzare. Ce lo siamo chiesti ragazzi ed adulti assieme. Strano, in genere l’adulto ha sempre la risposta pronta e giusta, è più abituato a fare lezioni che a riceverne. Ma davanti a un dramma tale l’unico atteggiamento possibile ci è sembrato quello di restare sbigottiti e muti. Poi, piano piano qualcosa ci siamo detti, è nata la voglia di non restare zitti. Da un momento all’altro ci siamo trovati proiettati dal nostro provincialismo color grigio noia, soddisfatto del poco, alle sfide globali del nostro tempo. E’ nata così una rivoluzione interiore, delle coscienze e dell’anima, un terremoto che presto si è comunicato all’esterno. La comunicatività infatti non è né una dote innata di qualcuno né una tecnica da apprendere alla scuola della pubblicità, ma è avere cose importanti da dire e avvertire l’urgenza di farlo.
I giovani chiedono di essere messi alla prova. Hanno bisogno di qualcuno che per primo accetti di porsi sfide alte per fidarsi di farle proprie. Pretendono, giustamente, che qualcuno dia loro fiducia e stima, per concederle a loro volta. E’ quello che abbiamo fatto, e oggi ve ne presentiamo i risultati. Permetteteci un po’ di orgoglio.
Ecco che allora parlare di bambini soldato e parlare di giovani è diventato un tutt’uno, e vogliamo confrontarci con educatori, insegnati, genitori, preti, politici, ecc… cioè un po’ con tutti quelli che hanno a che fare con i giovani e i loro destini.
Cosa vogliamo dimostrare? Che forse più che la tanto proclamata crisi della trasmissione dei valori da una generazione all’altra c’è una mancanza di credibilità in chi quei valori dovrebbe trasmettere. Poniamoci assieme la domanda di quali adulti quale mondo propongono ai giovani. A volte c’è da augurarsi che non ne seguano l’esempio.
Un incontro, un dibattito, una proposta per mettersi in discussione e far nascere qualcosa di nuovo a Terni.
Temi trattati
I bambini soldato: L’ONU avanza l’ipotesi che i minori di 16 anni impegnati in guerra nel mondo siano circa 500.000 in circa 36 Paesi: Algeria, Angola, Burundi, Ciad, Congo Brazaville, Congo Kinshasa, Eritrea, Etiopia, Rwanda, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda, Colombia, Messico, Perù, Afghanistan, Filippine, India, Indonesia, Isole Salomone, Myanmar, Nepal, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Sri Lanka, Tajikistan, Timor Est, Uzbekistan, Iran, Iraq, Palestina, Libano, Ex Yugoslavia, Russia, Turchia.
Il diritto internazionale:
Convenzione dei Diritti del Bambino: adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 Maggio 2000, fissa a 18 anni l’età minima per la partecipazione diretta ai conflitti, per l’arruolamento nei gruppi armati e per il servizio militare obbligatorio.
Statuto della Corte per i Crimini Internazionali (1998): configura come crimine di guerra l’ ”arruolamento di ragazzi sotto i quindici anni nelle forze armate nazionali o il loro utilizzo attivo nelle ostilità”.
African Charter on the Rights and Welfare of the Child: è l’unica carta regionale che si occupa dei bambini soldato, adottata dall’Organizzazione degli Stati Africani (OAU) nel novembre 1999: vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Protocolli Aggiuntivi (del 1977) alla Convenzione di Ginevra del 1949 : vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1261 (1999), 1314 (2000) 1379 (2001), 1460 (2003) e 1539 (2004): vieta l’utilizzo di minori in guerra.
Perché sono utilizzati i bambini soldato: Sono più manipolabili, Costano di meno, Incutono terrore nelle popolazioni civili, Obbediscono ad ogni genere di ordine.
Come avviene l’”arruolamento”: I bambini sono rapiti: Durante i saccheggi nei villaggi, Fra le bande di orfani e ragazzi di strada nelle città, Dalle scuole e dagli istituti, Ma altre volte i bambini si uniscono ai gruppi armati per sopravvivere o perché vogliono vendicare atrocità commesse contro loro familiari.
Per obbligarli a combattere e obbedire ciecamente ai loro capi i bambini soldato sono: Drogati, Costretti a uccidere parenti e vicini di casa per impedire che fuggano, Premiati con cibo, armi e ruoli militari, Maltrattati.
Molti bambini costretti a combattere muoiono perché si espongono ai rischi con meno cautele e sono meno esperti. Se feriti o malati vengono abbandonati o uccisi. Subiscono gravi danni psicologici e sono rifiutati dalle comunità di origine. Anche gli altri ragazzi delle aree in conflitto diventano sospettabili in quanto potenziali nemici
I bambini perdono più facilmente il controllo in situazioni di tensione e sono dal “grilletto facile”. Sono meno capaci di reagire agli ordini più efferati. L’uso dei bambini soldato è favorito dalla diffusione delle armi leggere: anche un bambino di 10 anni è in grado di usarle.
L’Italia è il quarto paese al mondo per esportazioni di armi (dopo Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia) e il terzo per le armi leggere. Molte delle armi usate dai bambini soldato sono prodotte e vendute da industrie Italiane. Mentre il commercio di armi pesanti è strettamente regolamentato, quello delle armi leggere è molto più libero. Spesso rientrano nella classificazione di armi da caccia o sportive e il loro commercio è quindi più facile.
Dal 1996 al 2001 l’Italia ha venduto armi leggere (pistole, fucili, mitragliatrici, ecc…) a 20 paesi in cui combattono bambini soldato: Algeria, Congo Brazaville, Eritrea, Etiopia, Sierra Leone, Uganda, Colombia, Messico, Perù, Filippine, India, Indonesia, Nepal, Pakistan, Sri Lanka, Israele e Palestina, Libano, Ex Yugoslavia, Russia, Turchia.

La petizione al Governo italiano per la quale sono state raccolte finora circa duemila firme da parte dei giovani della Parrocchia:

Considerato che:
- Nel mondo 500.000 bambini sono impegnati a combattere in guerra;
- I bambini e le bambine imparano facilmente ad usare le armi leggere, automatiche, che costano relativamente poco;
- L’utilizzo dei bambini soldato è una delle forme più drammatiche di sfruttamento illegale di minori;
- Molti paesi nel mondo non hanno ancora ratificato il Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che proibisce il reclutamento militare e l’impiego in guerra dei minori di 18 anni;
- L’Italia ha ratificato il protocollo opzionale alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia ma continua ad essere il terzo esportatore mondiale di armi leggere;
chiediamo:
1) Una moratoria delle esportazioni di armi leggere e “per uso civile” nei paesi in cui sono ancora reclutati i bambini soldato, sia negli eserciti regolari sia in quelli di opposizione armata.
2) L’impegno delle istituzioni italiane per regolamentare il commercio internazionale di armi leggere e contro l’utilizzo dei bambini soldato nel mondo.
3) Che l’Italia “adotti” 500 bambini soldato (l’uno per mille del totale) per un programma di rieducazione, riabilitazione e formazione professionale in vista del loro reinserimento nei paesi d’origine.

La Parrocchia di Santa Croce è una piccola parrocchia al centro di Terni che si caratterizza come un centro sono in cui sono accolti per la preghiera e la liturgia gli abitanti del quartiere ma anche molte persone di passaggio. Accanto all’aspetto religioso, la parrocchia ha particolarmente a cuore l’accoglienza a tutte le persone che per motivi vari si rivolgono a lei in cerca di sostegno. Lo fa attraverso:
Un centro di accoglienza settimanale che distribuisce alimentari, vestiario, prodotti per bambini e generi vari, consulenza e accompagnamento e servizio lavanderia per circa 70 famiglie (circa 250 persone).
Un centro di accoglienza notturno per un totale di 9 persone ospitate.
Un servizio di distribuzione serale di pasti ai senza fissa dimora e nomadi.
Un servizio di visita agli anziani nell’Istituto “Le Grazie” di Terni.

I realizzatori di sogni:
Così si sono voluti chiamare i più giovani che si incontrano a Santa Croce. Sono adolescenti e ragazzi conosciuti durante iniziative nelle scuole pubbliche o in altre occasioni di incontro organizzate della parrocchia. A dicembre hanno fatto una raccolta di giocattoli usati in 7 scuole elementari di Terni, coinvolgendo circa 700 bambini. I giocattoli sono poi stati selezionati e preparati per essere venduti in un mercato a corso Tacito. Il ricavato è stato utilizzato per finanziare una casa famiglia per ragazzi di strada a Kiev (Ucraina).
Da febbraio si sono assunti il problema dei bambini soldato attraverso un lavoro di documentazione e diffusione della conoscenza del fenomeno nelle scuole medie (Istituto Leonino e Scuola Media Statale Leonardo da Vinci) catechismi e oratori parrocchiali, raggiungendo circa 500 adolescenti di Terni e Narni. In questi mesi hanno inoltre raccolto circa 2000 firme per la petizione al Governo Italiano.

Gli interventi dei più giovani al convegno:
“Tutto è cominciato una mattina di qualche mese fa: un video a scuola, più o meno quello visto oggi anche da voi, e una domanda: “Che fare?”
Che la guerra fosse una schifezza, lo sapevamo già, ma i ragazzi come me, almeno quelli, pensavamo che li lasciassero stare. Invece no, Charles ha pochi anni meno di me: io vado a scuola e a giocare a calcio a S. Francesco, lui invece tira cocaina e spara. Luis taglia braccia e piedi a colpi di machete. Il “Comandante Highway” ridacchia di chi è morto dissanguato.
I miei nonni hanno vissuto la guerra, da bambini. Mi hanno raccontato qualcosa, ma sono solo ricordi un po’ sbiaditi: la paura, la mancanza di cibo, i giochi poveri in mezzo alle macerie delle case. Credevo che fossero cose di altri tempi, invece sono solo cose “lontane”. Nel senso che sì, succedono ancora, ma solo in paesi lontani dall’Italia. Le trasmissioni per ragazzi della TV queste cose non ce le raccontano: per loro basta che mangiamo merendine e giochiamo al virtuale che tutto va bene. Le mamme sorridono e i bimbi ingrassano. In Uganda no: le donne perdono figli e la guerra guadagna soldati bambini. A Freetown alla gente i ragazzi non sorridono, sparano.
O non viviamo nello stesso mondo o tutti sono impazziti.
Abbiamo pensato: che fare? Semplice, ci siamo detti, cambiamo canale, anzi spegniamo la TV. Basta alle pubblicità, ci siamo voluti informare. La guerra ora ha un sapore disgustoso che ci fa andare di traverso la Nutella e il Mulino Bianco. Al posto di Charles ci potrei essere io, al posto di Luis il mio compagno di banco. Comandante Highway potrebbe essere il figlio del mio vicino di casa con cui gioco al computer. Che cosa ho fatto io per scampare questo destino? Non lo so, ma una cosa ce l’ho chiara: ora so che faccia ha la guerra, la loro.”

“Qualche idea chiara ce la siamo fatta:
primo: anche i ragazzi della nostra età possono avere opinioni
secondo: certe cose bisogna saperle, non si può restare ignoranti su come va il mondo
terzo: vogliamo far sentire la nostra voce.
A chi ci propone una vita spensierata rispondiamo: è una cosa troppo seria per prenderla alla leggera. Ma non credete che siamo ragazzi strani. Abbiamo scoperto che avere uno scopo importante per cui batterci ci fa essere più uniti e più felici. Sì, felici di essere utili ai tanti Charles che abbiamo incontrato. Una mia amica di scuola mi diceva che da quando ho cominciato a interessarmi dei bambini soldato sono cambiata. Prima, lo confesso, mi vergognavo di parlare davanti a tanti, come ora sto facendo, e non potete immaginare che paura mi fa ancora. Ma è troppo importante per starsene zitta. Questa mia amica ora ha cominciato anche lei a raccogliere firme con noi, ed oggi è qui in sala. Mi viene l’idea che forse essere felici sia contagioso.”

“Fermare la gente per strada e chiedere di riflettere non è una cosa facile. Qualche volta ci siamo sentiti dei guastafeste: “che stai a parlare di cose così tristi? ” ci dicevano alcuni con gli occhi, magari senza il coraggio di dirlo a parole. Tanti però ci hanno dato retta. Ci siamo così resi conto che la parola è un’arma potente, tocca il cuore e convince la mente. Con la parola abbiamo smosso muri o anche solo sollevato la polvere: tutte e due le cose non fanno vedere oltre se stessi. Abbiamo capito così perché Gesù si è affidato alla parola e ci ha lasciato come tesoro più prezioso proprio le sue parole, cioè il Vangelo. Spiegarsi non è facile, bisogna essere convinti di qualcosa e che è importante comunicarla agli altri: lo abbiamo sperimentato incontrando tanti. Gesù infatti non faceva “lezioni di teoria”, quello che ha detto l’ha vissuto lui per primo. Oggi le parole si sprecano, si consumano, e perdono significato. Peccato, perché, se sono vere, è l’unica cosa che abbiamo per mettere in comunicazione i cuori. Siamo cristiani, e per questo le parole, ogni parola, ha per noi un colore e un calore, un sapore forte. Abbiamo imparato ad ascoltarle e a usarle, ne siamo orgogliosi. La parola “pace” è un volto; “bambini soldato” sono amici; “sogno” è quello che da sapore alla vita; chi le sciupa impoverisce sé e il mondo, che le ama è ricco.”






Giovani oggi: sfida globale o noia locale?

don Roberto Cherubini
parroco di Santa Croce


Sono particolarmente felice oggi, nell’aprire questo nostro incontro. Non è frequente infatti ritrovarsi in tanti, come oggi, a parlare e riflettere insieme su un tema particolarmente scottante, come quello dei bambini soldato, e, soprattutto, di farlo assieme a dei giovani loro coetanei. E’ anche raro, forse troppo raro, che noi adulti stiamo a sentire, specialmente poi dei ragazzi. C’è infatti una disabitudine all’ascolto, oggi che siamo nell’epoca della comunicazione, che ci colpisce un po’ tutti. Siamo cioè abituati a dire la nostra, a esprimere giudizi, un po’ meno a confrontarci pacatamente e con serietà, come vorremmo fare oggi.
Il tema della guerra e quello dei giovani sono accomunati da un fatto: se ne è detto e scritto tanto. Ne parla la TV, ne scrivono i giornali. Esperti, psicologi, sociologi, ce ne spiegano continuamente le dinamiche individuali e sociali. Anche un altro fatto però hanno in comune: se ne parla tanto, ma sempre meno li si guarda in faccia, senza la mediazione di chi “sa già” ed ha già una spiegazione per tutto. Spesso si va avanti per giudizi preconfezionati. Eppure, se ci pensiamo bene, di cosa dovremmo preoccuparci di più se non del futuro, nostro e dell’umanità, che così tanto si decide fin da ora proprio da come crescono i nostri giovani e da quanta guerra e quanta pace c’è nel mondo? Proprio questo abbiamo voluto fare: come giovani e assieme ai giovani abbiamo voluto guardare la guerra con gli occhi dei più giovani, quelli dei bambini soldato. Abbiamo così scoperto che il mostro della guerra non solo ai giovani rende la vita impossibile, ma anche quando, bontà sua, non li fa morire, gli ruba la vita. Sono milioni gli anni di vita rubati ai 500.000 mila soldati sotto i 16 anni che ancora oggi saccheggiano, uccidono in tanti Paesi di tutti i continenti. E’ una montagna di innocenza violata, di futuro bruciato, di sogni negati.
Sì, sogni, perché ascoltandoli parlare abbiamo scoperto che i ragazzi costretti a combattere hanno dei sogni, quei sogni che tante volte a noi mancano. Sogni di futuro migliore, fame di vita vera, sete di umanità.
Guardare in faccia la guerra e farlo con gli occhi dei giovani ci ha allora aiutato a capire meglio alcune cose: prima di tutto che la guerra è un concentrato di tutte le disumanità, tanto da non arrestarsi neanche di fronte ai bambini. Ma poi ci ha mostrato il desiderio, anzi il bisogno di tanti nostri giovani di essere messi alla prova. Il mondo degli adulti infatti, e qui intendo genitori, insegnanti, educatori, preti, politici e un po’ tutti quelli che hanno in un modo o nell’altro a che fare con i giovani e i loro destini, troppo spesso ho l’impressione che abbia smesso di aspettarsi molto dai giovani. Forse anche perché, chiedere loro molto è impegnativo innanzitutto per sé. Come dicevo poco fa, esistono già tanti giudizi preconfezionati sui giovani come categoria, a che vale la fatica di farsene uno su misura per ognuno, di verificarlo, di mettersi in ascolto per cercare di capire? E spesso, se non sempre, quello preconfezionato è un giudizio amaro: si dice che i giovani sono immaturi, inadeguati ad assumere responsabilità, caratterialmente fragili, psicologicamente labili, culturalmente impreparati, ecc… la litania è lunga e tutti l’abbiamo sentita, se non snocciolata, parecchie volte. Ma, mi chiedo: ammesso e non concesso, che questa sia la realtà, non è proprio per questo necessario un sovrappiù di lavoro per accompagnare, sostenere, affiancare? Eppure, guardandoci attorno, di sforzi se ne vedono molto pochi. La scuola sceglie sempre più modelli competitivi, che tendono a “premiare i meritevoli”, come si usa dire, cioè a darsi da fare con chi è più facile da seguire e a escludere chi non ce la fa a stare al passo e richiede più lavoro in chi lo educa. La dispersione scolastica raggiunge, specie al sud, livelli da terzo mondo, e sempre più larghe fette di giovani sono tagliate fuori: si pensi ai portatori di handicap dopo le drastiche riduzioni di organico degli insegnati per il sostegno e l’accompagnamento scolastico. Ma ancora peggio, l’irrequietezza dei bambini, un tempo quasi sintomo di buona salute e sveltezza intellettuale, da problema educativo è divenuta patologia da trattare medicalmente. Cioè la mancanza di efficacia dei sistemi scolastico ed educativo invece che far interrogare sull’adeguatezza dei metodi adottati viene sempre più spesso risolta con uso o, direi, abuso di Prozac e degli altri psicofarmaci per uso pediatrico in rapida e preoccupante diffusione. Gian burrasca e Pinocchio se vivessero oggi ne riceverebbero dosi massicce.
Non escludo da questo discorso neanche l’ambiente religioso, come ad esempio le parrocchie. Da anni una strategia pastorale che si riteneva più “moderna” ha consigliato di ritardare l’età del conferimento della cresima per aumentare almeno a due le “tappe” che impegnano i giovani in un percorso parrocchiale: il catechismo per la comunione e quello per la cresima. Ma questo sdoppiamento, mi chiedo, oltre che allungare il tempo di stazionamento nell’ambiente parrocchiale, è significato una trasmissione più incisiva del messaggio evangelico nella vita dei giovani e giovanissimi? Gli indicatori che possono dare una risposta a questo interrogativo sono sotto gli occhi di tutti: i giovani, finito il percorso obbligatorio per ricevere i sacramenti generalmente si allontanano o restano ai margini della parrocchia, fino a scomparire verso i 15-16 anni di età. Come dicono molti catechisti, un po’ sconsolati, “non si fermano” in parrocchia. Anche in questo caso si evita di fare verifiche e il fenomeno, oltre che essere tristemente constatato, è fatalisticamente accantonato come un fallimento dovuto alle tante crisi: della società, dei valori, della famiglia, della religiosità, ecc… Più raramente è il proprio operato quello che viene messo in crisi. Torna allora, anche in ambito religioso, il mesto rosario dei giudizi sui giovani, cui accennavo poco fa.
Mi chiedo allora: non sarà il caso che, invece di lamentarci ed elencare giustificazioni, ci poniamo più seriamente il problema. Non serve a nulla la scusa che già facciamo molto. In sintesi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio blocco del meccanismo di trasmissione dal mondo degli adulti a quello dei più giovani. Intendo trasmissione dei valori (la pace, la giustizia, il bene comune, la solidarietà, ecc..) ma anche della fede, della fiducia in istituzioni, come la famiglia, la scuola, la parrocchia, la politica, che sempre meno appaiono significativi ed attraenti nella vita di un giovane. A questo blocco la psicologia e la sociologia si affrettano a offrir vagonate di spiegazioni e soluzioni. Io però azzardo un’ipotesi diversa: non sarà che più che avere difficoltà a comunicare i più non vivono loro per primi quello che teoricamente dovrebbero comunicare e quindi, proprio per questo, non sono credibili? In questo senso alcuni fenomeni sembrano evidenziare un bisogno enorme di figure di riferimento, esemplari e stimate per la loro coerenza ed affidabilità. Ad esempiole folle di giovani andate a Roma per rendere omaggio alla salma del pontefice defunto. Cosa avevano trovato tutti quei giovani in quel vecchio invalido? Che cercavano da un tipo così fuori moda e poco accattivante?
Forse avevano trovato un adulto affidabile, che prima di chiedere fiducia ne dava, prima di pretendere qualcosa la viveva lui in prima persona, e per questo suscitava sogni ambiziosi e aspettative. E non si può dire che Giovanni Paolo II non fosse un tipo esigente. Tutti ricordiamo il discorso davanti ai milioni di giovani alla GMG di Tor Vergata. Chiedeva cose alte, perché aveva gustato come era affascinante viverle.
Siamo realisti, ho l’impressione che la maggior parte degli adulti oggi non sono in grado di chiedere cose alte a un giovane, perché loro per primi sono fragili, incerti, se non paurosi, incoerenti e retorici. Pronti a proclamare l’importanza dei valori ma incapaci a viverli coerentemente. Pretendono, ad esempio, che i giovani si confidino con loro, ma non sanno essere fedeli nei rapporti, e il fenomeno dilagante dei fallimenti matrimoniali ne è una prova eclatante. Stigmatizzano la mancanza di ideali nei giovani, ma loro sono i primi ad averli messi in soffitta, una volta passata la ventata di ribellismo giovanile: ne è un esempio il modello, così diffuso anche qui a Terni, di adulto di sinistra, rivoluzionario e snob, che potremmo definire “comunista al cachemire”. Oppure abbondano i benpensanti che proclamano con tono da crociata il valore supremo della famiglia, salvo poi affidare al cronicario il vecchio genitore ormai inutile. Questo è l’esempio che, nella maggior parte dei casi, gli adulti sanno offrire ai giovani; onestamente c’è da augurarsi che non lo seguano.
Forse esagero un po’, ci sono tante eccezioni e distinguo, ma la normalità mi sembra che sia questa. Qualcuno, mi si dirà, dei giovani però ne parla bene, anzi ne è entusiasta. E’ vero esiste anche chi vede nei giovani una sorta di positività innata, spontanea e sorgiva. Sono quegli adulti che, come si suole dire, più che genitori o educatori puntano ad essere i loro amici “alla pari”. Ma cosa significa essere alla pari? Non lo siamo oggettivamente, ma non lo dovremmo essere nemmeno per scelta. Essere adulti ha un valore. Avere qualcosa da trasmettere, senza imposizioni o paternalismi, qualcosa che si impone da sé per la sua evidente verità, non è cosa “da vecchio”, di cui vergognarsi, anzi. Magari avessimo tutti qualcosa di serio e di profondo da comunicare. Ho l’impressione che tante volte dietro la smania di essere “alla pari” si celi un gran vuoto di senso e di maturità.
Allora, che fare?
Ce lo siamo chiesti qualche mese fa davanti a un video che ci mostrava ragazzini di Freetown e di Gulu abituati ad ammazzare. Ce lo siamo chiesti ragazzi ed adulti assieme. Strano, in genere l’adulto ha sempre la risposta pronta e giusta, è più abituato a fare lezioni che a riceverne. Ma davanti a un dramma tale l’unico atteggiamento possibile ci è sembrato quello di restare sbigottiti e muti. Poi, piano piano qualcosa ci siamo detti, è nata la voglia di non restare zitti. Da un momento all’altro ci siamo trovati proiettati dal nostro provincialismo color grigio noia, soddisfatto del poco, alle sfide globali del nostro tempo. E’ nata così una rivoluzione interiore, delle coscienze e dell’anima, un terremoto che presto si è comunicato all’esterno. Comunicativo infatti non è chi ha una dote innata né chi impara la tecnica della pubblicità, ma lo è chi ha cose importanti da dire e avverte l’urgenza di farlo.
Dicevo poco fa: i giovani chiedono di essere messi alla prova. Hanno bisogno di qualcuno che per primo accetti di porsi sfide alte per fidarsi di farle proprie. Pretendono, giustamente, che qualcuno dia loro fiducia e stima, per concederle a loro volta. E’ quello che abbiamo provato a fare, e oggi ve ne presentiamo i risultati. Permetteteci, con un po’ di orgoglio.
Nel Vangelo di Marco leggiamo che una volta un giovane si rivolse a Gesù per porgli una domanda, essenziale e sfacciata, come sanno fare i giovani: come avere una vita felice? Nel linguaggio dell’ebraismo di quel tempo gli disse cioè: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” Gesù, da buon rabbino, gli ricordò il minimo che doveva fare, cioè essere almeno un’onesta brava persona. Si accorse però che a quel giovane il minimo non bastava, lui ambiva a di più. Ecco che allora Gesù accetta di mettersi in gioco, di dargli lui per primo quello che poi avrebbe chiesto a quel giovane di dare agli altri: “Allora Gesù fissatolo lo amò” e poi gli chiese di dare tutto quello che possedeva ai poveri e di seguirlo. Da una domanda, nata in un incontro forse casuale, nasce un dialogo dal quale Gesù non si sottrae con una lezioncina teorica né con un rapido giudizio sommario. Metterci in gioco, in prima persona è quello che anche oggi i giovani chiedono a noi adulti per crescere. Che non sia questo anche il modo per essere degli adulti felici?
Grazie.




Gabriella Podestà
educatrice Parrocchia Santa Croce




Con questo mio intervento vorrei rendere conto del lavoro che in questi mesi abbiamo fatto con i “realizzatori di sogni”, come il gruppo dei più giovani della parrocchia si sono voluti chiamare.
Siam giovani ed adulti convinti che essere cristiani sia qualcosa che si deve vedere, ma non come un’etichetta ma con l’eloquenza di gesti e di un impegno concreto al fianco dei più deboli. Dapprima, a novembre scorso abbiamo voluto raccogliere l’appello di Pavel, ragazzo di Kiev, che, finito per strada per lo sfascio della sua famiglia, aveva trovato qualcuno che si è preso cura di lui. Abbiamo letto una sua lettera che si concludeva: “Spero che tanti ragazzi che vivono come vivevo io incontrino come me qualcuno che li aiuti. A volte li vedo per la strada. Alcuni me li ricordo perché ho dormito e mangiato con loro. Li saluto, ma loro non mi riconoscono e scappano spaventati, lo so perché, è la legge della strada. Vorrei aiutarli ma ci vuole qualcuno che mi dia una mano. Che ne dite voi ?“
Ci siamo dati da fare : siamo andati nelle scuole elementari di Terni, abbiamo raccolto migliaia di giocattoli usati, quelli che i ragazzini non usavano più, ma ancora in buono stato. Raccolti e rimessi a posto abbiamo potuto venderli in un mercato a corso Tacito. Abbiamo spiegato a tanti il perché di quello che facevamo e abbiamo raccolto quanto era necessario per aiutare un gran numero di ragazzi. Eravamo soddisfatti, perché l’inverno sottozero di Kiev almeno per alcuni sarebbe stato meno freddo.
A questo punto non potevamo però fermarci, infatti realizzare sogni diventa un po’ un vizio: una volta cominciato è difficile smettere. Abbiamo allora cominciato a chiederci come vivevano i ragazzi della nostra età in guerra e ci siamo imbattuti in quelli che non solo subiscono la guerra, ma la fanno: i ragazzi soldato. Così ci siamo informati, abbiamo raccolto dati e immagini, e abbiamo fatto il giro di classi di scuola e di catechismo. I ragazzi ci stavano a sentire stupiti: non sono cose che si sentono tanto dire in giro. A tutti abbiamo voluto rivolgere un appello concreto: ricordarsi di loro e parlarne ogni volta che si fosse presentata l’occasione, ma anche mettere la propria firma sotto la parola “Basta!” Un piccolo gesto concreto che adulti e ragazzi possono compiere facilmente, ma allo stesso tempo, impegnativo perché obbliga a fermarsi a riflettere e a prendere posizione. L’appello lo avete ascoltato, ora stava a noi raccogliere il più grande numero di firme possibile. Abbiamo cominciato a girare per le strade, e forse qualcuno di voi oggi è qui proprio perché ci ha incrociati mentre raccoglievamo adesioni. Siamo andati in scuole medie e superiori, in classi di catechismo, all’oratorio, nei centri sportivi, nei negozi, in piazza e alla passeggiata. Ogni angolo era buono per fermare gente e chiedere loro di firmare. Questo ci ha richiesto un certo sforzo: non eravamo certo abituati a farlo e spesso ci siamo dovuti spiegare e rispondere a dinieghi o critiche. Questo però, lungi dallo scoraggiarci, ci ha aiutato a rafforzaci nella convinzione che c’è un gran bisogno di parlare di questi argomenti. Ci ha colpito quanti, pur firmando, esprimevano la loro sfiducia. Ci siamo resi conto che c’è una grande rassegnazione circa il fatto che il mondo continuerà ad andare come è sempre andato, che la guerra ci sarà sempre, che l’uomo sfrutterà sempre il suo simile, ecc… A Pasqua ci dicevamo che proprio il realismo di tanta gente fece sì che Gesù, nonostante la sua innocenza, venisse condannato a morte e poi ucciso. Allo stesso tempo però la sua resurrezione ha contraddetto la rassegnazione dei discepoli stessi che ormai vedevano infranto per sempre il sogno che li aveva animati per lungo tempo accanto a Gesù. Così era un po’ lo stesso per noi. Charles, Louis, Capitano Highway erano volti ormai così familiari che non potevamo accettare con rassegnazione che continuassero a essere sfigurati dalla guerra. Sì, il sogno che ci fosse anche per loro una resurrezione possibile, come per Gesù, ha fatto sì che il realismo di tanti, complice di chi armava le mani di quei ragazzi, non ci sfiduciasse, anzi ci animasse di nuova voglia di fare e impegno.
Oggi siamo qui a raccontarvelo e speriamo di avervi contagiato un po’. Abbiamo imparato che la fede non è qualcosa di nascosto, intimista o sentimentale, ma si esprime in parole e volti, prende la fisionomia di gesti concreti, come una firma, e gente fermata per strada. E’ un vangelo di carne, notizia buona che vogliamo portare ai ragazzi di tutto il mondo, perché la guerra è pericolosa e subdola. Si insinua a volte nei cuori senza che ce ne accorgiamo. Chi è rassegnato e pensa che è cosa normale, che ci sarà sempre è un suo alleato. Chi rinuncia a sognare un mondo disinfettato da ogni germe di conflitto accetta che l’epidemia dilaghi. Allora abbiamo scoperto che lavorare per strappare dalle mani dei ragazzini soldato le armi era anche il modo migliore per sradicare dai nostri cuori le radici amare che la pianta cattiva della guerra vi aveva fatto attecchire. E’ un sogno? Forse, di quelli belli che ci piace avere. Di sicuro non è un’illusione.





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